Amarcord: Ariel Ortega, sua maestà l’incostanza

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Era di un’eleganza a tratti impressionante, aveva dribbling, velocità e furbizia, ma si accendeva ad intermittenza, rovinando spesso e volentieri ampie porzioni di partita nelle quali rimaneva del tutto anonimo. Ariel Ortega è stato uno dei calciatori più talentuosi della sua generazione, troppo bravo per essere dimenticato, troppo discontinuo per essere annoverato fra i grandi di sempre.

Classe 1974, Ortega è sin da ragazzino considerato in Argentina un talento fuori dal comune: bassino (1 metro e 70 scarsi), agile, scattante, doti tecniche eccezionali. Fa il trequartista e lo fa divinamente, soprattutto quando decide di prendere palla e portarsi a spasso quasi tutta la difesa avversaria, finendo con l’arrivare dritto in porta o essere abbattuto da qualche difensore rude e poco incline alla resa. I colpi di Ortega sono tanti, forse troppi per essere elencati tutti: dribbling ubriacante, visione di gioco, capacità balistiche sui calci piazzati, abilità nel tirar fuori pallonetti dal nulla, spesso scavando col piede sotto la palla disegnando traiettorie che i portieri non riescono a decifrare neanche riguardandole a casa dalla televisione. Cresciuto e maturato nel River Plate, Ortega vince con la squadra di Buenos Aires tre tornei di Apertura ed una Coppa Libertadores, oltre ad esordire in nazionale ed essere perfino convocato per i mondiali del 1994 dove a soli vent’anni esordisce sostituendo Diego Armando Maradona a pochi minuti dal termine di Argentina-Grecia del 21 giugno 1994.

Tentare l’avventura europea è ad un certo punto la naturale ambizione del fantasista sudamericano che nel febbraio del 1997 si trasferisce in Spagna al Valencia dove disputa un’ottima seconda parte di stagione con 12 presenze e 7 reti nella Liga. Nell’annata successiva, però, le cose vanno diversamente ed Ortega non si integra bene col nuovo allenatore del Valencia, l’italiano Claudio Ranieri, che lo ingabbia in movimenti tattici che l’argentino poco ama: “Devi giocare in questa mattonella di campo, senza andartene in giro altrove“, gli dice il tecnico romano disegnando movimenti e perimetro di gioco alla lavagna. Ma ad Ortega giocare così non piace, magari sarà più utile al gioco e all’equilibrio della squadra, ma per lui fare avanti e indietro in soli 20 metri di campo sembra uno spreco totale della sua fantasia. L’annata non è buona e il trequartista la chiude con appena 2 reti in 20 presenze ed in estate chiede la cessione. Proprio in quel periodo, intanto, disputa il suo secondo mondiale, quello di Francia ’98 nel quale mostra tutte le sue migliori e peggiori qualità: nella partita contro la Giamaica dà spettacolo e realizza pure due gol, ma nella sfida dei quarti di finale contro l’Olanda a Marsiglia si fa espellere per una testata al portiere olandese Van der Sar col punteggio sull’1-1; dopo una manciata di secondi, l’Olanda segna con Bergkamp il gol del 2-1 che elimina l’Argentina dai mondiali.

Ariel Ortega si accasa alla Sampdoria nel luglio del 1998, accolto da ovazioni e cori da parte del pubblico doriano, orfano già da un anno di Roberto Mancini e convinto che la maglia numero 10 blucerchiata abbia finalmente ritrovato un adeguato padrone. La Sampdoria è affidata a Luciano Spalletti, allenatore che in soli tre anni ha portato l’Empoli dalla serie C1 alla A e lo ha pure salvato dalla retrocessione, impresa che gli è valsa la chiamata di una squadra che la proprietà vuole mantenere competitiva per qualificarsi in Coppa Uefa, come già accaduto nell’ultimo anno. Spalletti può utilizzare Ortega in due modi, o seconda punta accanto al centravanti Montella, oppure trequartista alle spalle dello stesso Montella e di Palmieri. Ma la stagione dei liguri sarà un calvario, ben presto la squadra rimarrà invischiata nella lotta per non retrocedere e perderà certezze e convinzione, il club andrà in confusione esonerando Spalletti e poi richiamandolo in tutta fretta quando ormai, però, la situazione era già compromessa. Ortega riesce a farsi valere, ma a sprazzi, i tifosi un po’ lo amano e un po’ lo odiano, un po’ lo acclamano e un po’ lo fischiano, perché le doti dell’argentino sono tali da far impallidire la maggior parte dei calciatori della serie A, ma il numero 10 doriano le utilizza una volta sì e tre no.

Ortega segna qualche volta su calcio di rigore, prima di Natale con una perla su punizione sotto la pioggia battente di Marassi acciuffa il Milan futuro campione d’Italia sul 2-2. Il 21 marzo 1999 la Sampdoria ospita l’Inter che era partita con ambizioni da primato ritrovandosi, invece, a metà classifica e con un’alternanza di allenatori e giocatori da guinness dei primati. Le motivazioni dei blucerchiati sono forse il doppio rispetto a quelle dei milanesi, ormai consapevoli di doversi trascinare stancamente verso la fine di un campionato disastroso. Montella sigla una tripletta, poi ecco il capolavoro di Ortega, uno di quei gesti per cui il prezzo del biglietto appare perfino riduttivo: l’argentino è lanciato in contropiede sul settore sinistro dell’attacco, neanche si accentra, fa semplicemente partire un pallonetto di esterno destro che è tanto morbido quanto preciso, scavalca l’attonito portiere interista e si adagia dolcemente in rete. La Sampdoria vince 4-0 e la prodezza di Ortega fa il giro del mondo diventando uno dei gol più belli dell’anno. Sarà tutto inutile, però, perché i doriani finiranno clamorosamente in serie B e l’ingaggio del trequartista sudamericano non più alla portata di un club costretto a rifondare per intero l’organico.

Nell’estate del 1999, dunque, Ortega cambia squadra ma non paese: lo ingaggia, infatti, il Parma che lo preleva dalla Sampdoria per poco meno di 30 miliardi di lire, aggiungendo qualità ad una rosa già eccellente. L’obiettivo degli emiliani è ormai chiaro, vincere lo scudetto, l’unico alloro che manca ad un club che in meno di dieci anni ha conquistato già due Coppe Italia, una Coppa delle Coppe, una Coppa Uefa ed una Supercoppa Italiana. Ma, anche in questo caso, le ambizioni saranno inversamente proporzionali ai risultati perché il Parma esce quasi subito dal giro scudetto, scottato anche dalla clamorosa eliminazione ad agosto dai preliminari di Coppa Campioni per mano dei Glasgow Rangers. Ortega non si integra molto bene e non gioca quasi mai, il che non fa che acuire la sua cronica allergia alla continuità, oltre al fatto che il modulo tattico utilizzato dall’allenatore Malesani non ne esalta le qualità. La prima rete col Parma giunge alla quinta giornata, il 3 ottobre 1999, nel 3-0 che gli emiliani rifilano al Verona, poi più nulla per due mesi, fino alla doppietta al Torino del 5 dicembre, probabilmente la più bella prestazione in maglia gialloblu. Il terzo ed ultimo gol di Ortega in Emilia arriva il 20 gennaio 2000 ed è un gol inutile perché il Parma perde 2-1 in casa contro il Perugia.

Appena 18 presenze e 3 reti, l’addio in estate fra l’indifferenza generale di una tifoseria che non gli ha regalato particolari emozioni e a cui il calciatore stesso non ha fornito quasi nulla di sé. Il ritorno al River Plate con quasi 30 reti in due anni vale ad Ortega la convocazione per i mondiali asiatici del 2002, terza rassegna iridata per il fantasista argentino. Sarà una spedizione disastrosa per l’Argentina, eliminata al primo turno da Inghilterra e Svezia; di Ortega si ricorda il rigore contro gli svedesi, parato dal portiere scandinavo e ribadito in gol da Hernan Crespo per un pareggio che estrometterà comunque i sudamericani dal torneo. Ariel Ortega, dopo una breve parentesi al Fenerbache in Turchia, giocherà ancora per altri 10 anni, fino al 2012, sempre e solo in Argentina, prima nel Newell’s Old Boys, poi nuovamente al River Plate, quindi all’Independiente Rivadavia, al Club Atletico All Boys e al Defensores de Belgrano con cui chiuderà la carriera, terminata con oltre 100 gol e tre campionati del mondo disputati.

Qualcuno lo aveva indicato come erede di Diego Maradona, etichetta che in Argentina hanno spesso appiccicato sulla schiena di fantasisti che del Pibe de Oro avevano poco o nulla e che molte volte ha condizionato la carriera di parecchi di loro, schiacciati da un paragone improponibile. Sulla carriera di Ariel Ortega, invece, più che questo ha pesato una naturale indolenza, una mancanza di cura dei particolari che lo ha portato ad essere quasi sempre molto fumo e poco arrosto. Un peccato, perché certe giocate e certi colpi hanno illuminato gli occhi degli appassionati che ancora oggi ne restano ammaliati.

di Marco Milan

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