In Egitto regna il terrore. Regeni è solo una delle tante vittime

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Egitto. Il tragico epilogo della storia del nostro connazionale Giulio Regeni ha riacceso i riflettori sull’Egitto e sui metodi usati da al-Sisi per mantenere il potere. Nel Paese bagnato dal Mar Rosso, negli ultimi due anni, sono state arrestate 63mila persone e oltre tremila sono state condannate a morte.

Egitto. Sono passati quasi sei anni dall’inizio delle proteste delle nuove generazioni contro i tiranni del Maghreb, proteste piene di rabbia mista a speranza, proteste che poi definimmo Primavera araba. Volevano rovesciare dittature durate decenni come quelle di Ben Alì, Mubarak, Gheddafi e Assad, ma in molti nella passionaria e disperata ricerca di democrazia, libertà e giustizia trovarono la morte a Tunisi, Aleppo, Bengasi, Tripoli e Il Cairo. Chi è riuscito a sopravvivere, proprio quando pensava di aver ottenuto ciò che voleva, ha dovuto fare i conti con la realtà.

In Tunisia, la Rivoluzione dei ciclamini è riuscita a condurre il Paese a libere elezioni dopo oltre cinquant’anni di governo autocratico prima e dittatura poi. Elezioni che hanno visto vincitore il partito laico, guidato da Beji Caid Essebsi. Ma i numerosi problemi sociali ed economici con cui la giovane democrazia s’è scontrata sono ben presto divenuti terreno fertile per l’estremismo jihadista. La Tunisia è diventata teatro di attentati condotti dall’Is in musei e villaggi vacanze, che hanno allontanato numerosi turisti europei che garantivano al Paese considerevoli entrate economiche. Oggi l’attacco frontale condotto dalle truppe del Califfo al confine con la Libia rende ancora più difficile la vita al governo di Tunisi, abbandonato a sé stesso dai vicini Paesi europei.

In Libia e in Siria, invece, la guerra civile in cui sono sfociate le proteste non è mai finita e molti dei giovani che qualche anno fa erano in piazza contro Gheddafi e Assad hanno trovato motivazioni e sostentamento sotto il macabro vessillo nero dello Stato Islamico.

Anche in Egitto, come in Tunisia, le proteste di Piazza Tahrir sono riuscite ad ottenere la destituzione di Mubarak e libere elezioni. Dalle urne, nel giugno 2012, sono usciti vincitori i Fratelli Musulmani, guidati da Mohamed Morsi, ma l’avventura democratica egiziana ha avuto vita molto più breve di quella tunisina. Solo un anno dopo la sua elezione, Morsi è stato destituito dalle forze armate e il potere è passato nelle mani del Generale al-Sisi. Immediatamente le proteste sono tornate ad animare le strade del Cairo e purtroppo ben presto è ricominciato a scorrere anche il sangue.

Al-Sisi usa il pugno di ferro contro i manifestanti. I Fratelli Musulmani e molte altre associazioni giovanili vengono dichiarate fuorilegge, gli arresti e le condanne a morte si moltiplicano. Secondo i dati diffusi dalle organizzazioni egiziane in difesa dei diritti umani, da luglio 2013 ad ottobre 2015 sono state arrestate 63mila persone e oltre tremila sono state condannate a morte. Secondo un rapporto del 2016 diffuso da Human Rights Watch oltre cinquecento arrestati hanno dichiarato di aver subito torture o violenze, 47 prigionieri sono morti mentre erano in custodia nelle carceri del regime e da quando è al potere al-Sisi 209 carcerati hanno perso la vita per negligenze mediche.

Numeri sconvolgenti, preoccupanti, un vero e proprio stato di polizia che reprime nel sangue ogni opposizione ma che non ha scandalizzato nessuna grande democrazia occidentale. Anzi. In un’intervista, concessa nel luglio del 2015 alla tv Al Jazeera, il presidente Renzi ha dichiarato: «In questo momento l’Egitto può essere salvato soltanto dalla leadership di al Sisi, questa è la mia opinione personale. Sono orgoglioso della nostra amicizia e lo aiuterò a proseguire nella direzione della pace». Non una parola sugli arresti, sulle vittime delle carceri egiziane o sulle condanne a morte. Per Renzi al-Sisi è «un grande leader». Occhio non vede, cuore non duole e portafogli non piange. Gli affari tra Italia ed Egitto proseguono senza sosta. Eni investe in Egitto oltre 14 miliardi di dollari e, oltre all’azienda guidata da De Scalzi, nel Paese bagnato dal Mar Rosso operano circa 130 aziende italiane, tra cui Banca Intesa Sanpaolo, Edison, Italcementi e Pirelli.

E così, gli interessi economici e politici ci hanno fatto dimenticare il dramma che gli egiziani hanno vissuto quotidianamente negli ultimi tre anni. Solo in queste ultime settimane, in seguito al tragico epilogo della vicenda del nostro connazionale Giulio Regeni, la durezza e l’atrocità con cui al-Sisi governa l’Egitto torna ad essere protagonista del dibattito pubblico. Solo ora Renzi e il suo governo si accodano ad un popolare sentimento di sdegno e battono i pugni sul tavolo pretendendo giustizia e verità.

I segni di tortura rinvenuti sul corpo di Giulio, le evidenti bugie delle autorità del Cairo, la mancata collaborazione tra gli inquirenti egiziani e quelli italiani hanno portato al massimo livello la tensione tra i due Stati, al punto che la scorsa settimana il Ministro degli esteri, Paolo Gentiloni, ha richiamato a Roma per consultazioni il nostro ambasciatore in Egitto.

Oggi siamo, giustamente, impegnati a capire cosa sia accaduto a Regeni ma non dobbiamo dimenticare tutti quegli altri giovani che in Egitto, ogni giorno, vengono arrestati, torturati o spariscono nel nulla. Qualche giorno fa la mamma di Amr Ibrahim Metwalli, un ragazzo egiziano scomparso nel 2013, ha scritto al Corriere della Sera una bellissima lettera aperta indirizzata a Paola Regeni, madre di Giulio.

«Ti faccio le condoglianze per la perdita di tuo figlio – scrive la donna nella sua lettera – in questo modo orrendo e atroce, disumano. Condivido la tristezza e l’amarezza. Malgrado tutto questo, ti invidio per questo coraggio nel presentare le tue richieste determinate, ti invidio questo interesse del tuo governo per la causa di tuo figlio e, scusami, ti invidio per aver potuto rivedere tuo figlio, anche se questo incontro è stato tragico. Io e mille altre madri egiziane vorremmo rivedere i nostri figli, anche se fossero avvolti in un vestito bianco, macchiato del loro stesso sangue, anche se fossero presentati alla procura con il volto tumefatto dalla tortura subita ed anche se li vedessimo condotti all’impiccagione. Vorremmo vedere che i media del mio Paese parlassero del caso dei nostri figli scomparsi e delle nostre tragedie, invece di rivolgere a noi le accuse di raccontare bugie, accrescendo così le nostre sofferenze. Vorremmo che un procuratore ci desse un po’ di ascolto, come ha fatto la giustizia italiana nel vostro caso, e desse corso alla giustizia anche qui, per riportare alle nostre famiglie un minimo di diritti».

Quando e se avremo fatto luce su chi ha ucciso Giulio Regeni, non dovremo accontentarci. Non possiamo più girare la testa dall’altra parte. Dovremo continuare a chiedere giustizia anche per Amr Ibrahim Metwalli e per tutti gli altri scomparsi nel nulla. Lo dobbiamo a quelle madri ma lo dobbiamo anche a Giulio, che molto prima dei nostri politici, con grande coraggio, aveva iniziato a raccontare e denunciare quanto stava avvenendo in Egitto e probabilmente per questo ha pagato con la sua vita.

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