La lunga marcia della nuova sinistra
“D’Alema dì una cosa di sinistra. Dì una cosa anche non di sinistra, di civiltà. D’Alema dì una cosa, dì qualcosa”, implorava uno sconsolato Nanni Moretti davanti alla televisione dove il segretario dei Democratici di Sinistra era impegnato in un confronto per la campagna elettorale del 1996. “Dobbiamo rassicurare”, smoccolava ancora Moretti di fronte all’assenza delle parole storicamente di sinistra in quella campagna elettorale. Il muro di Berlino era caduto da poco più di sei anni, il Partito Comunista più grande dell’occidente si era sciolto da appena cinque, e la sinistra politica era alla ricerca di parole nuove che ne sostenessero l’esistenza.
Come stiamo vedendo oggi, quelle parole la sinistra non le ha ancora trovate. E non le ha trovate perché è essa stessa che è venuta a mancare, sostituita da una nuova sinistra nata col boom economico, nutrita nella società del consumo e che, dopo aver eroso le fondamenta del muro di Berlino, ha potuto finalmente affermarsi come nuovo interprete della richiesta di liberazione dell’individuo. Cerchiamo ora di ricostruirne il percorso.
Con una geniale intuizione, Eric J. Hobsbawn ha definito Secolo breve[i] lo spazio politico del Novecento, racchiudendolo tra la rivoluzione sovietica del 1917 e la caduta del muro di Berlino. Ci si può oggi forse chiedere se non sia esistito anche un secolo lungo che abbia invece compreso lo spazio sociale dell’Ottocento, l’era della civiltà borghese aperta dalla Restaurazione e che si spinse in profondità nel Novecento fino alla rivoluzione globale del 1968. L’orizzonte di riferimento della società occidentale rimase infatti per tutto quel tempo sostanzialmente immutato, poiché né il progresso della tecnica, né l’idea di progresso socialista riuscirono mai ad intaccarne davvero in profondità e in modo diffuso e globale modi e stili di vita, bisogni e aspirazioni. Il drammatico punto di contatto tra questi due atipici secoli si trova negli anni Sessanta, un decennio che segnò il momento finale del secolo lungo e aprì la strada per il dissolvimento del secolo breve, e non è un caso che Mario Tronti in una recente intervista al quotidiano La Repubblica[ii] indichi proprio negli anni Sessanta il termine della spinta creativa del Novecento politico. L’avanzata delle implicazioni politiche e dei riferimenti valoriali esplosi con il miracolo economico sgretolarono definitivamente la società borghese e presero a logorare il sistema del secolo breve fino a portarlo alla dissoluzione.
L’impressionante accelerazione del tempo impressa dal miracolo economico sgretolò in un decennio un ordine sociale che aveva resistito a moti, rivoluzioni e a ben due guerre mondiali. Per comprendere come ciò sia stato possibile occorre prima soffermarsi sul mutamento del concetto di massa dal suo significato ottocentesco di moltitudine più o meno organizzata, a quello assunto di fatto in quegli anni e ancora oggi in vigore, che ha invece a che fare con un uomo nuovo che nessun regime totalitario era riuscito a forgiare, con il nuovo tipo di individuo che si affacciò alla ribalta sulla scena occidentale: il consumatore. Il miracolo economico fu in questo senso il primo fenomeno davvero di massa della storia, dove la massa è la totalità di consumatori, ovvero la nuova società del miracolo economico (un illuminante ragionamento su totalitarismo e consumismo è quello operato da Pier Paolo Pasolini in una intervista del 1974 per la Rai). Non più dunque il borghese, l’aristocratico o il socialista e i loro codici e orizzonti ben codificati, ma un uomo nuovo che tutti e tre li comprende e anzi li trascende. Fu questa epocale trasformazione della società che preparò il terreno per la caduta del sistema politico del secolo breve, una caduta che sarebbe avvenuta vent’anni dopo proprio a causa del logorio cui fu sottoposto non dalle forze della reazione della destra, ma dalla più autentica novità politica dell’era del miracolo economico, quella gioiosa macchina da guerra[iii] ante litteram – in questo caso vincente – costituita dalla nuova sinistra.
Nell’orizzonte dei giovani cresciuti con il miracolo economico, la prima generazione,[iv] in conflitto con il vecchio sistema di valori del vecchio mondo, stava avvenendo un sostanziale cambiamento: sempre più a illuminare la strada che portava alla liberazione dell’individuo non era il Socialismo, ma il consumo. Alla sua luce quella strada non era più una lunga e sudata prospettiva di speranza ma un immediato, continuo e confortevole arrivare, e pure quando quell’arrivo non era così immediato riusciva comunque ad apparire lì alla portata attraverso la pubblicità e la moda. Era il consumo che poteva portare naturalmente alla dissoluzione dei confini tra le classi sociali, e il sistema di pensiero che ne aveva teorizzato l’abbattimento attraverso una rivoluzione delle masse entrò in crisi. Non c’era più bisogno di lavorare per la nuova società di domani, perché la società di domani era già arrivata, ma l’emancipazione non consisteva più nella liberazione del lavoro ma nell’accesso al consumo per tutti e per ciascuno.
Di fronte a un tale rivolgimento, un rivolgimento che stava rapidamente creando un unico sistema valoriale in malcerto equilibrio tra aspirazioni che implicavano contemporaneamente giustizia sociale e libertarismo, una difficile riflessione sulla libertà cominciò a maturare nelle forze più avanzate della società, a partire dai giovani delle università.[v] Tale riflessione fu però bruscamente interrotta sul nascere con il precipitare del conflitto nel maggio 1968. La radicalizzazione dello scontro fece sì che quel percorso di riflessione finisse ora cristallizzato in frammenti di dogmi issati come bandiere di fede e impressi a spray sui muri delle coscienze, ora disinnescato spacchettandolo in sistemi di respiro assai meno lungo come l’ecologismo e gli associazionismi di settore, ora semplicemente risolvendosi nella scelta del libertarismo. In tutti e tre i casi, il conflitto interno di quelle coscienze si è progressivamente sfogato più facilmente all’esterno, contro una imprecisa varietà di simboli del potere e di autorità, così testimoniando un’idea di libertà nel migliore dei casi senza una visione d’insieme, ma per lo più intesa in ultima analisi come semplice assenza di vincoli all’espressione del proprio sé. Il grande protagonista diventa allora l’Io, concetto attorno al quale solo si riuscirà di lì in avanti – in modo orrendamente ossimorico – a pensare gruppi sociali omogenei.
Questa incontrastata affermazione dell’Io e della realizzazione di sé – concetto per lo più inesistente prima del miracolo economico – porta naturalmente con sé i germi della disgregazione dei vincoli sociali, ove non accompagnata da una decisa operazione di rinsaldamento di questi ultimi. Tale operazione non ebbe luogo proprio perché quelle forze di sinistra tradizionali che avrebbero dovuto esserne protagoniste venivano ormai ignorate quando non apertamente avversate, in quanto confusamente percepite come parte integrante di quel sistema di potere da abbattere, oppure erano esse stesse inebriate dalle novità movimentiste di rivendicazione dell’io, e dunque incapaci di rielaborare una eventuale nuova visione di insieme. Ciò di fatto ha comportato lo svuotamento dello stesso significato storico di sinistra, senza peraltro che un nuovo significato fosse elaborato attraverso una qualche compiuta riflessione. Dire cosa è di sinistra e cosa no è perciò oggi diventata una operazione complicata e dagli esiti incerti quando non bizzarri, come testimonia il dibattito di questi giorni sulla riforma del lavoro tutto interno al Partito Democratico.
È quella sofferta e fondamentalmente incompiuta riflessione sulla libertà operata dai giovani degli anni Sessanta che ha plasmato le forme e i protagonisti della società contemporanea, le sue modalità di relazione, il suo orizzonte di riferimenti. E tale orizzonte, inutile negarlo, è quello della nuova sinistra che, per quanto vaga e confusa possa risultare in quanto mai concretamente definita, [vi] è stata subito tra i giovani dei Sessanta ed è ancora oggi largamente maggioritaria nell’occidente industrializzato. Liberata dall’ultimo ostacolo con il crollo del muro di Berlino, la nuova sinistra ha potuto dilagare definitivamente. All’indomani del crollo del muro, infatti, un dissolvimento così repentino dell’intero sistema di valori racchiuso dal blocco comunista non può spiegarsi se non alla luce della sua sostituzione, operata magari in modo non del tutto consapevole nel corso di vent’anni, con un sistema di valori nuovo che pure pareva ugualmente realizzare la liberazione di tutti e di ciascuno. Si tratta di una liberazione immediata, del tutto priva di una visione d’insieme, ma alla quale tutti hanno accesso o alla quale l’accesso riesce a sembrare per tutti facilmente alla portata. Al difficile percorso verso la socializzazione dei mezzi di produzione è stato sostituito un immediato processo di socializzazione dell’accesso ai prodotti di consumo, sostenuto da un ideale democratico privo alla base di una compiuta riflessione sui rapporti politici, economici e sociali che lo sostengono.
(di Eugenio D’Agata)
Eric J. Hobsbawn, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995,
[ii]
Sono uno sconfitto, non un vinto, in La Repubblica, 28 settembre 2014.
[iii]
Così Achille Occhetto definì la coalizione di sinistra che si apprestava a sfidare quella di Silvio Berlusconi nelle elezioni politiche del 1994.
[iv]
S. Piccone Stella, La prima generazione, Franco Angeli, Milano, 1993. V. anche M. Tolomelli, Giovani anni Sessanta: sulla necessità di costituirsi come generazione, in P. Capuzzo (a cura di), Genere, generazione, consumo. L’Italia degli anni Sessanta, Roma, Carocci, 2003
[v]
Sono del 1967 i due documenti fondamentali del movimento studentesco, le Tesi della Sapienza elaborate dagli studenti di Pisa e il Movimento per una Università negativa redatto da quelli di Trento. I due documenti analizzano il rapporto tra università e società per arrivare a comprenderlo nel più ampio rapporto tra saperi e capitale, teorizzando la necessità di riacquisire un pensiero critico non funzionale al sistema, in opposizione all’operazione livellatrice operata nelle università dal capitale.
[vi]
A questo proposito può essere interessante il volume di Mario Perniola, Berlusconi o il ‘68 realizzato, Mimesis, Milano 2011