Un anno dopo Lampedusa, ancora morti in mare e un Paese diviso
Un anno fa un peschereccio con un carico di uomini, dolore e speranze affondò nelle acque limpide di Lampedusa trascinando giù più di trecento uomini, donne e bambini. Quelle bare, una accanto all’altra, in un hangar dell’isola siciliana ci colpirono come un ceffone beccato in piena faccia. Il dramma dell’immigrazione tornò d’attualità sui media e nell’opinione pubblica. Tanti politici, italiani ed europei, ed anche il Papa corsero sull’isola per gridare: «Mai più!»
Da allora abbiamo visto partire l’operazione europea Frontex e abbiamo vissuto una forte spaccatura nel Paese tra i favorevoli e i contrari all’accoglienza. E persino la nomina dell’italiana Federica Mogherini ad Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea è figlia di quel naufragio. Ma nonostante gli impegni presi, le operazioni europee e gli appelli lanciati dalla Chiesa, la gestione dei flussi migratori è rimasta miope e senza prospettive, affrontata con provvedimenti spot o emergenziali.
Sin dai primi anni novanta, con l’arrivo di migliaia di albanesi, l’Italia s’è dovuta scontrare con i grandi numeri di migranti provenienti delle tante aree in crisi che circondano la nostra penisola, ma nel corso di oltre due decenni, quando non s’è cercato di rispondere con Cie o respingimenti, i migranti sono stati relegati a tema di serie B. Così, mentre gli italiani si dividono in opposte fazioni che litigano tra loro e con l’Europa, nel Mediterraneo si continua a morire. Nell’ultimo anno, solo nelle acque italiane, sono state accertate 363 vittime dei viaggi della speranza. Altre 818 sono, invece, le vittime ripescate in acque libiche, morti poche miglia dopo la partenza. Vittime, spesso senza nome, di una tragedia senza fine.
Lo scorso mercoledì Bergoglio ha ricevuto in Vaticano alcuni superstiti di quel drammatico naufragio del 3 ottobre dello scorso anno. E proprio mentre Papa Francesco spendeva nuovamente parole accorate in favore dell’accoglienza, in un piccolo comune del padovano un parroco di provincia si scontrava con i cittadini del suo paese, preoccupati e arrabbiati per l’arrivo nel comune di dieci donne e dei loro bambini.
Il comune in questione è Rovolon, 4.900 anime sui colli eugenei, dove in oltre duecento sono scesi in piazza per protestare contro la scelta di accogliere i migranti nella Casa di accoglienza San Domenico Savio, gestita dall’associazione Per un sorriso. Il parroco che sull’accoglienza non vuole cedere di un passo, invece, è don Angelo. Abbiamo provato a contattarlo ma dalla Curia di Padova ha avuto disposizioni precise: sulla vicenda parla solo l’ufficio stampa della Diocesi (dal quale non abbiamo ricevuto risposta).
Sull’episodio, però, abbiamo sentito Maria Elena Sinigaglia, sindaco trentacinquenne di Rovolon. La Sinigaglia, iscritta a Forza Italia, è stata eletta nel 2011 con una lista civica alleata con il Partito Democratico. Quando la contattiamo al telefono, a scanso di equivoci, ci tiene a precisare di non essere un esponente della Lega. Ma questa non è l’unica cosa che il primo cittadino di Rovolon vuole chiarire: «Il comune – ci dice – sulla vicenda non ha voce in capitolo e con la protesta non c’entra nulla, a protestare sono i cittadini e prevedo che nelle prossime ore i toni si inaspriranno, visto che la Prefettura ci ha appena comunicato che è stata firmata l’intesa con chi gestirà l’accoglienza dei migranti. I patti erano diversi: si doveva prima sentire la comunità, ricucire lo strappo ora sarà ancora più difficile».
Uno strappo che secondo il sindaco sarebbe stato meno violento se sulla vicenda ci fosse stato un maggiore dialogo con la cittadinanza. «L’associazione Per un sorriso – dice – ha gestito l’accoglienza avvolgendo la vicenda in un fittissimo velo di mistero e senza un minimo di programmazione futura, una scelta che non ha certamente disteso gli animi, ognuno dovrà prendersi la responsabilità delle proprie scelte».
Ma le bordate più dure, da parte del primo cittadino, sono per la Onlus Percorso Vita di don Luca Favarin, la cooperativa che di fatto gestirà l’accoglienza dei migranti. «Se vogliamo davvero che dall’Europa e dal Governo arrivino politiche concrete per fronteggiare questo problema – prosegue la Sinigaglia – le onlus dovrebbero smettere di abboccare all’amo dei 33 euro al giorno per migrante accolto. Certo, non rubano soldi, cercano un lavoro per la loro cooperativa, ma nel frattempo fanno appello allo spirito cristiano e alla solidarietà umana strumentalizzando la vicenda. Io ho lanciato anche una provocazione: li accolgano e rinuncino ai 33 euro!». Il riferimento, neanche troppo velato, è al sussidio che le cooperative ricevono dallo Stato per curare l’accoglienza dei migranti. Ma, in ogni caso, in un appello ai sui concittadini la Sinigaglia invita tutti alla calma offrendosi come mediatrice tra le parti: «Capisco la rabbia della popolazione per la mancata informazione ma a Rovolon non sta succedendo niente di allarmante o pericoloso. Personalmente ritengo che il problema dell’accoglienza vada risolto a monte, dal Governo, e che questa attuale politica sia sbagliata e non vada sostenuta, ma in fondo se i migranti alla fine verranno accolti non sarà una tragedia per Rovolon».
Accuse respinte al mittente da don Luca Favarin, anche lui sentito da Mediapolitika: «Abbiamo incontrato sin da subito il sindaco e il vicesindaco nel Municipio, a loro abbiamo spiegato chiaramente che non ci sarebbero state invasioni e che sarebbero arrivate solo una decina di donne con i loro figli. Stiamo parlando di rifugiate politiche che hanno vissuto un incubo, che hanno perso i loro mariti in guerra o in naufragi nel Mediterraneo, sono donne sole che abbiamo il dovere di aiutare».
Quanto all’accusa di una mancata programmazione futura, don Luca è chiarissimo: «Il dramma dell’immigrazione, come tante altre problematiche in Italia, viene affrontato solo come un’emergenza, la programmazione manca a livello nazionale. Ma il sindaco stia tranquillo, la maggior parte dei migranti è in Italia solo in transito e certamente non hanno intenzione di stabilirsi a Rovolon. Se qualcuno dei migranti, più avanti, mostrerà la volontà di rimanere nel nostro Paese, verrà certamente accolto e inserito nella nostra società attraverso le tante strutture che già operano in tutto il territorio nazionale».
Sulla questione dei 33 euro, invece, don Luca è molto duro: «Il sindaco con quella frase offende noi e tutto il volontariato nazionale. In ogni caso, visto che la sede di Percorso Vita è a Padova, i nostri operatori dovranno caricarsi il costo degli spostamenti da e verso Rovolon, buona parte di quei 33 euro saranno usati per coprire questa spesa. E poi, se davvero avesse ragione lei, conoscendo gli italiani ci sarebbe la corsa all’accoglienza!».
Prima di lasciare don Luca, però, gli chiediamo se dietro questo atteggiamento di chiusura di una buona fetta del Paese (uno dei Paesi del mondo in cui il cristianesimo è maggiormente diffuso) non si celi anche un fallimento della Chiesa, che non è stata in grado di trasmettere l’accoglienza come un valore cristiano: «Valori come la solidarietà, la carità, l’accoglienza non vanno semplicemente predicati, vanno vissuti – ci dice don Luca – altrimenti il rischio è di avere le Chiese piene di praticanti ma non di credenti. Gesù nel Vangelo parla chiaro, dice: “ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato […] ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me.” Un cristiano di fronte all’accoglienza non ha bisogno di porsi domande».
(di Pierfrancesco Demilito)