Venezuela, quel milione di voti che allunga il regime

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di Emiliana De Santis

Il 7 ottobre scorso, i venezuelani si sono recati alle urne per eleggere il loro presidente. Clima teso, esito per nulla scontato, sfidanti importanti: da un lato il caudillo Hugo Chavez, al potere da 14 anni e in attesa di veder proclamato il suo quarto mandato; dall’altro Henrique Capriles, quarantenne ex sindaco ed ex governatore, ansioso di dare il colpo finale a un regime che langue.

Lo scenario- In Venezuela sono di più i possessori di armi che i votanti. Su una popolazione di 29 milioni di persone, metà delle quali vive nella capitale, Caracas, 17 hanno almeno una pistola mentre sono in 15 milioni circa ad avere una tessera elettorale. L’economia, per nulla florida, sconta l’effetto delle nazionalizzazioni mentre l’esempio del Brasile si fa sempre più fulgido e trainante. La Petroleos de Venezuela, gestore quasi unico degli immensi giacimenti del Paese è lottizzata da amici e parenti della grande famiglia chavista, la stessa che ha il monopolio dell’apparato statale e dell’informazione e che, in teoria, avrebbe dovuto garantire l’applicazione del Socialismo. Arcaico, populista, versione grottesca del modello cubano, el Socialismo del siglo XXI, altro non maschera che una gestione clientelare e nepotista dello Stato, facendo leva su nuove paure e antichi risentimenti oltre che su una retorica anticapitalista e antiamericana che non trova più ragione di esistere.

Le urne- I duellanti hanno affilato bene le armi prima di presentarsi allo scontro. Chavez ha lasciato poco spazio televisivo a Capriles e ha messo in piedi un apparato di polizia a dir poco stringente, come testimonia la chiusura dall’ambasciata a Miami durante le elezioni, per evitare che i numerosi venezuelani ivi residenti potessero andare a votare. Con il ricavato del petrolio ha aumentato i salari, le pensioni e allungato le ferie. In pratica assistenzialismo e spesa pubblica infruttuosa che non mettono in moto un reale sviluppo ma funzionano benissimo come macchina cattura voti. Capriles, rappresentante di una coalizione di 30 partiti, uniti dalla forza dell’esasperazione, ha puntato sulla voglia di normalità, con un linguaggio semplice e diretto, ben lontano dai toni della rivoluzione bolivariana. Ha tenuto comizi anche nei più remoti villaggi e barrios venezuelani, tradizionale bacino elettorale di Chavez, sfruttando sia i social network sia il risentimento per una situazione che si è fatta per molti davvero insostenibile.

Una sconfitta di buon auspicio- Niente accade per caso. Se l’incremento dei votanti è stato pari al 6% rispetto al 2006 mentre i voti destinati a Chavez sono diminuiti di 9 punti percentuali, significa che chi è andato a votare si è espresso in favore di Capriles. Non importa che le intenzioni di voto non possano essere dichiarate (nel 2004 furono in tantissimi a firmare una petizione contro Chavez, la lista venne resa pubblica e i sottoscrittori licenziati o ostracizzati) e nemmeno che il caudillo governerà fino al 2018: il Venezuela ha voglia di cambiamento e sta cercando di sanare le sue ferite sociali e storiche. Caracas vive nell’ombra di cugini importanti come Buenos Aires e Brasilia quando invece ha il potenziale per esserne alla pari. È probabile che una vittoria dell’opposizione oggi avrebbe portato a un peggioramento dello status quo dato che la costituzione venezuelana stabilisce in 90 giorni il periodo di transizione tra un Governo e un altro. Giorni entro i quali i militari, mercenari del regime, avrebbero potuto prendere il controllo con un atto di forza, insediandosi così al potere.

Ogni cosa a suo tempo. E il tempo del Venezuela sta decisamente per arrivare.

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