La sottile linea rossa tra innovazione e sfruttamento

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di Chiara Baldi

«L’Ordine dei Giornalisti non nutre alcuna ostilità verso quanti, soprattutto sul web, praticano forme di informazione diffusa, dal basso, voci di associazioni e singoli e impegnati a testimoniare sensibilità, culture, movimenti. Queste attività sul web, con sconfinamenti anche sulla carta stampata, in radio, tv e su prestigiose testate online, non vanno certamente limitate né ingabbiate, semmai sollecitano una discussione sulle regole. Non vanno tuttavia confuse con l’esercizione della professione giornalistica». Sono le parole di Giancarlo Ghirra, segretario del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, che esprime la posizione dello stesso Odg verso iniziative come Reporter. «L’iniziativa di Repubblica sui videomaker, fortunatamente ridimensionata e chiarita dal punto di vista dell’equo compenso, è utile per chiarire le differenze fra citizen journalism e attività professionale», continua Ghirra, che precisa l’obbligo degli iscritti a fornire «un’informazione sottoposta a verifiche e controlli, completa e pluralistica». È per questo, conclude il segretario, che Reporter, seppur di grande interesse, «non può coinvolgere giornalisti abilitati dalla pratica e dalle conoscenze su ruolo ed etica professionale, evitando pericolose confusioni sui compiti di una corretta informazione».

Ma non è solo l’Odg ad esprimersi così: qualche ora prima, infatti, era stato lo stesso CdR di Repubblica ad esprimere «disappunto» per l’Academy lanciata dal giornale. Come anche aveva fatto la Fnsi in un comunicato, il CdR ha ricordato che «la produzione di materiale giornalistico, specie se corredata di formazione professionale, non può che avvenire nella cornice delle norme sancite sal Contratto giornalistico nazionale, sia per quanto attiene all’aspetto retributivo, sia per quanto riguarda il discutibile ricorso ad una società esterna per la valutazione del prodotto». Inoltre, il CdR di Repubblica esprime «la propria non ostilità preconcetta a nuovi progetti editoriali ma chiede il rispetto delle regole, soprattutto ora che con l’Azienda è stato avviato un dialogo – nell’ottica di investimenti per nuove iniziative editoriali – per una razionalizzazione delle risorse interne compatibile con una regolamentazione delle forme di lavoro atipico».

In questi anni di cambiamento repentino, di informazione sempre maggiore e continua, il dibattito sul citizen journalism è molto acceso e divide la categoria dei giornalisti (e aspiranti tali) sostanzialmente in due fazioni: da una parte, coloro che spingono indiscriminatamente verso un’apertura quasi inevitabile, di cui di certo il giornalismo italiano ha bisogno per recuperare credibilità e professionalità verso gli altri modelli europei e non solo, e dall’altra coloro che vorrebbero sì apertura e innovazione, ma senza mai dimenticare la dignità della professione, che significa inevitabilmente anche equo compenso. In Italia questo significa sostanzialmente mettere da una parte i precari del giornalismo contro tutti gli altri, sostenitori di iniziative come quella di Repubblica. È probabilmente una semplificazione brutale, ma è utile per capire quanto complesso sia il discorso sul citizen journalism.

Modello di riferimento per coloro che vedono nel giornalismo dal basso lo strumento per far ripartire il giornalismo italiano, considerato antico e troppo ancorato ai vecchi media, è The Guardian, quotidiano inglese, che proprio sul citizen journalism basa buona parte della sua attività giornalistica. Ma la differenza tra la stampa inglese (ed europea in generale) e quella italiana è sostanziale: da noi c’è un numero altissimo di giornalisti (110mila iscritti tra professionisti e pubblicisti), moltissimi aspiranti tali e già da anni si parla di «impossibilità ad assorbire un numero così grande di professionisti». Inoltre, e questo è indubbiamente il punto centrale del dibattito, la maggior parte dei giornalisti italiani ha contratti precari che molto raramente, per non dire mai, diventano contratti stabili. Insomma, l’avanzamento di carriera nelle redazioni è, in Italia, troppo spesso, vera e propria utopia.

Sono questi i motivi che hanno portato la rete a “ribellarsi” all’Academy di Repubblica. A leggere i commenti di quanti lavorano come giornalisti guadagnando cifre irrisorie, non si nota l’ostilità verso nuove forme di giornalismo, ostilità che invece molti vi hanno voluto vedere, quanto piuttosto la paura di veder calpestare ancora di più la dignità di lavoratore, con conseguente crollo della retribuzione. Su Facebookin molti hanno chiesto, lecitamente, «cosa accadrà ora che anche il maggior quotidiano italiano si permette di pagare cinque euro (sebbene poi sia stata corretta la dicitura  «verranno valutate specifiche retribuzioni variabili a seconda del video richiesto») un video la cui realizzazione ne costa spesso centinaia?». A questa domanda il mondo giornalistico dovrebbe poter dare una risposta.

Di certo il giornalismo dal basso e la partecipazione attiva dei lettori alla costruzione dell’agenda di una testata è ormai inevitabile, visti anche i passi da gigante dei nuovi media e delle nuove tecnologie. Iphone, Ipad, i vari tablet e smartphone,così come Facebook e Twitter hanno irrimediabilmente cambiato il modo di fare informazione, costringendo i giornalisti a fare i conti con un altro mondo, altrettando assetato di notizie: quello dei lettori, che non hanno più voglia di stare a guardare, subendo passivamente l’informazione. Forse perché spesso la stessa informazione è stata fallace e ingannevole e allora i lettori non riescono più a “fidarsi”. O forse perché pensano di poter contribuire, con i loro video, o i loro blog, a creare una società più civile, più informata: insomma, migliore. In questo non c’è davvero nulla di male, né di malato. È anzi molto importante che i cittadini si sentano coinvolti e vogliano partecipare attivamente. Ma la professionalità del giornalista deve essere tutelata in tutti i modi possibili. Un “amatore” non conosce la deontologia giornalistica, né è tenuto a farlo. A sua volta, un giornalista, che la conosce, è obbligato a rispettarla. Le due realtà possono convivere senza problemi.

Il problema sorge quando si oltrepassa la linea della professionalità, come ha fatto Repubblica scrivendo che Reporter è indirizzato «anche a semi-professionisti (cioè giornalisti pubblicisti, ndr), con tecniche e strumenti più sosfisticati, che ritengono di avere storie che è importante divulgare». È questo che i precari hanno criticato: il voler mettere sullo stesso piano chi ha della professionalità regolata da una deontologia e chi invece non ce l’ha né è obbligato ad averla. Prima di parlare di nuove forme di giornalismo, di citizen journalism e di partecipazione attiva, è necessario che si comprenda bene dove sta la sottile linea rossa tra l’innovazione e lo sfruttamento. Prima dobbiamo risolvere il problema dei precari nelle redazioni e poi possiamo pensare al giornalismo dal basso. Il primo passo per far crescere e migliorare l’informazione italiana, introducendo anche un buon giornalismo dal basso, è quello di permettere a tutti i professionisti di lavorare in condizioni dignitose e con un compenso adeguato al lavoro svolto.

Fonte foto:

http://alexaizenberg.files.wordpress.com/2009/12/1-citizen-journalism.jpg


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