Amarcord: Carlos Henrique Raposo, l’uomo che inventò di essere un calciatore

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C’è gente che gonfia il proprio curriculum sperando di scalare posizioni dopo i colloqui di lavoro, ci sono ragazzi che farebbero carte false per far strada nello sport, per diventare professionisti. Poi c’è Carlos Henrique Raposo che per anni ha fatto credere di essere un calciatore, rimediando ingaggi e tesseramenti, ma riuscendo nell’impresa di non giocare mai. Una leggenda, a suo modo.

Alzi la mano chi di voi da bambino non abbia sognato almeno una volta di diventare un calciatore. Tutti, è naturale, e così anche Carlos Henrique Raposo, nato in Brasile il 2 aprile 1963, ragazzo con un carattere sopra le righe, amante della bella vita, delle belle donne e del pallone, nonostante tutto avesse fuorché talento. Ma la vita mondana e, soprattutto, notturna, porta Raposo a circondarsi di amicizie anche legate al mondo del calcio fin dalla giovane età: fra un bicchiere e l’altro e nell’immancabile compagnia femminile, lui la butta là: “Io vorrei provare a fare il calciatore“. Fra gli anni settanta e ottanta, però, in Brasile non c’è così tanta rigidità, nascono fenomeni e talenti in ogni angolo, ai ragazzi viene offerta la possibilità di sostenere provini e anche di essere tesserati dai club, poi chi vale prosegue e chi è una mezza cartuccia se ne torna a fare quello che faceva anche prima. Raposo ci prova, non ha il fisico longilineo e neanche doti tecniche particolarmente buone, ma soprattutto non ha il carattere del professionista, lui colleziona donne e drink, a letto ci va (per dormire) quando spunta il sole.

Chi gli abbia appiccicato addosso il soprannome che si porterà dietro per tutta la “carriera“, ovvero Kaiser, non è chiaro: c’è chi sostiene che sia stato perché nelle movenze ricordava Beckenbauer e chi, più maliziosamente, afferma che il nomignolo derivasse dal corpo piuttosto panciuto e che nella forma ricordava le bottiglie della nota birra Kaiser. Fatto sta che, non si capisce come, Raposo inizia a collezionare tesseramenti e contratti con squadre brasiliane di livello, nonostante lui e la professione di calciatore siano rette parallele precise, ovvero non si incontrano mai. La faccia tosta è la sua più grande qualità: Raposo fa credere di essere un giocatore e non lo è, inganna allenatori, presidenti, compagni di squadra e tifosi, è in realtà dipendente dal sesso e dalle donne, si accompagna con almeno un paio di donzelle al giorno e chissà cosa racconti loro per convincerle, visto il tipo. Ma come fa Raposo a farsi tesserare? Spesso sono gli amici calciatori ad aiutarlo: fanno inserire clausole speciali nei loro contratti, dicono di averlo visto giocare e di non farselo scappare. Lui firma e poi sparisce.

Al Botafogo, metà anni ottanta, Raposo finge una depressione cronica per la situazione economica precaria della famiglia, il presidente si impietosisce, acconsente a farlo stare a casa senza allenamenti e partite, ma gli elargisce comunque un lauto stipendio. Al Flamengo sbarca fra lo stupore generale ma diventa subito un personaggio: usa un giocattolo per bambini come se fosse un telefono cellulare e, vestito da gran signore, finge di parlare con alti dirigenti e procuratori; la gente vorrebbe vederlo in campo, lui invia certificati medici a raffica, oppure con i 2-3 calciatori della squadra che conosce, si accorda per fingere infortuni e pestoni in allenamento che gli impediscano di giocare poi alla domenica. Parlavamo di faccia tosta poco fa? Ebbene, quella non manca mai: quando, infatti, qualche giornalista prova a chiedere informazioni su quel giocatore che non gioca mai, lui fa razzia di belle donne ed organizza feste nella sua villa nelle quali la porta è aperta per tutti, giornalisti compresi. Magicamente, ogni articolo su Raposo viene stracciato.

Tesserato col Bangù, Raposo un giorno rischia davvero di dover giocare: l’allenatore della squadra non è un fesso, ha capito che quel ragazzo nasconde qualcosa, in allenamento non capisce nulla di tattica, fa 4 palleggi e poi lamenta contratture muscolari, giramenti di testa ed altri malanni vari. Allora vuole rischiare e lo manda a scaldare nell’intervallo di una partita: Raposo, senza farsi prendere dal panico, improvvisamente si scaglia contro un paio di tifosi dietro la panchina, scatena una gazzarra immonda che costringe l’arbitro ad espellerlo. Anche quell’esordio viene scongiurato. Sembra incredibile, ma il calciatore non calciatore ormai da più o meno 5 anni ha diversi tesseramenti e zero presenze. Non si sa come né perché, ma la sua inesistente fama arriva pure in Europa e Raposo viene ingaggiato dai francesi dell’Ajaccio; Corsica, mare, sole, donne e champagne: per lui è il Paradiso e nel 1986 sbarca in Francia, accolto (non si sa perché) da una folla impazzita che inneggia il suo nome e lo venera come se fosse arrivato il Papa.

Sarà il fascino dell’esotico brasiliano o la magia degli anni ottanta, fatto sta che il giorno della presentazione, nonostante uno stadio molto più piccolo di quelli a cui era abituato in Brasile, Carlos Raposo è accolto dal pubblico festante che lo acclama. A terrorizzarlo, semmai, sono una decina di palloni messi in fila a centrocampo e con i quali, presumibilmente, lui dovrà palleggiare per deliziare la gente coi suoi numeri funambolici e la sua tecnica brasiliana. La paura lo pervade, anni dopo ammetterà: “Pensai subito che se avessi iniziato a palleggiare, tutti si sarebbero accorti che le mie doti erano probabilmente inferiori a molti dei tifosi seduti sugli spalti“. La genialità gli viene in soccorso: Raposo incomincia a mandare baci al pubblico, chiede applausi, batte le mani a sua volta, poi raccoglie uno per volta i palloni, li bacia, si batte la mano sul cuore e li lancia verso la tifoseria ormai in visibilio assoluto. Passano 2-3 minuti e i palloni sono tutti in tribuna, Raposo con un gesto evita di mostrare a tutti di che pasta sia realmente fatto a livello balistico e si fa amare da un pubblico che, in realtà, non lo ammirerà mai perché, come al solito, il brasiliano non scenderà in campo nemmeno una volta.

Rientrato in patria, viene tesserato dalla Fluminense dopo aver convinto il presidente grazie alla sua intermediazione con una azienda sponsor del club e dove simula una fastidiosa pubalgia diventando la mascotte dello spogliatoio che la imputa alle sue insaziabili attività notturne, quindi nel 1988 finisce al Vasco da Gama dove ne combina un’altra delle sue, ovvero scatena un’altra rissa prima di disputare una partita, evitando così di scendere in campo. Negli spogliatoi, il presidente prova a dirgliene quattro, ma Raposo si fa piccolo piccolo e, quasi in lacrime, dice al patron che Dio gli ha dato due padri, uno purtroppo lo ha perso e l’altro è proprio lui. Il presidente, commosso, anziché continuare la lavata di testa lo abbraccia e lo porta come esempio morale al resto della squadra. Proprio al Vasco, Raposo conosce Djalminha (giocatore che avrà una discreta carriera anche in Europa) di cui sarà testimone di nozze nel 1992, a conferma che coi piedi ci sa fare poco, ma nelle pubbliche relazioni è il numero uno. La sua carriera (o meglio, non carriera) proseguirà fino al 2001 quando Raposo appenderà al chiodo i suoi scarpini mai utilizzati, spegnendo i riflettori su di sé.

Luci che si riaccenderanno anni dopo quando rilascerà diverse interviste nelle quali ammetterà quella che, a conti fatti, è stata una enorme e reiterata truffa. Difficile capire il confine fra la sua disonestà e l’incapacità dei club di capire la realtà, fatto sta che Carlos Henrique Raposo, l’uomo dalle mille donne e dalle mille conoscenze, è stato tesserato per oltre 15 anni da società importanti senza mai giocare e, soprattutto, senza essere realmente un calciatore. Più che un truffatore, insomma, lo si può definire un illusionista, anche se il pallone, più che sparire, non è proprio mai comparso.

di Marco Milan

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