Amarcord: la Roma di Ottavio Bianchi, la squadra delle finali

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E’ facile ricordare la Roma di Liedholm e lo scudetto del 1983, o la finale di Coppa Campioni dell’anno successivo, o magari quella di Fabio Capello che tornò alla vittoria del titolo nazionale del 2001, o anche quella di Luciano Spalletti che per anni ha giocato il miglior calcio d’Italia ben figurando anche in Europa. Passa in secondo piano, chissà perché, la Roma di Ottavio Bianchi che, nonostante le critiche, resta ancora oggi autrice di uno dei percorsi migliori nella storia del club giallorosso.

Doveva arrivare a Roma già nell’estate del 1989, Ottavio Bianchi, ma il Napoli lo aveva bloccato per un anno negandogli la rescissione del contratto, costringendo la Roma ad affidare la panchina per una sola stagione a Luigi Radici prima di accogliere il tecnico lombardo che alla vigilia dell’annata 1990-91 trova un buon organico ed una squadra comunque qualificata alla Coppa Uefa, risultato tutt’altro che scontato. E’ l’ultima stagione della carriera per Bruno Conti, che infatti giocherà pochissimo, è la prima per il brasiliano Aldair, difensore prelevato dal Benfica e che sarà una colonna portante dei giallorossi per almeno un decennio. C’è poi un ottimo centrocampo, con i dinamici Di Mauro e Desideri, lo sgusciante Salsano e l’elegante Giuseppe Giannini, capitano della squadra. In attacco, poi, accanto al tedesco Voller si alternano il nuovo acquisto Carnevale e Ruggiero Rizzitelli.

L’annata inizia discretamente per la Roma che ha come obiettivo in campionato qualificarsi alla Coppa Uefa e ben figurare sia in Europa che in Coppa Italia. Dopo neanche un mese, però, proprio Carnevale ed il giovane e promettente portiere Angelo Peruzzi (schierato come titolare al posto di Zinetti e Cervone) risultano positivi al controllo antidoping e verranno squalificati per un anno. In campionato, la Roma vive di risultati altalenanti, soprattutto in trasferta dove perde contro Genoa, Inter e Torino. Nelle coppe, viceversa, il percorso è netto: in Coppa Italia, infatti, i giallorossi eliminano a settembre il Foggia e a novembre il Genoa; in Uefa, poi, si liberano del Benfica vice campione d’Europa uscente, del Valencia e del Bordeaux, travolto 5-0 all’Olimpico con tripletta di Voller e 2-0 in Francia. Poi le coppe vanno in letargo e la Roma gioca solo il campionato dove continua ad ottenere risultati discontinui.

Il 19 gennaio 1991, alla vigilia della sfida casalinga contro il Pisa, muore il presidente Dino Viola, l’artefice dello scudetto del 1983 e della grande Roma degli anni ottanta. La tifoseria piange, i giocatori sono atterriti, per loro Viola è stato più di un presidente, per alcuni di loro (Giannini in testa) quasi un padre, motivo per cui la squadra perde malamente 2-0 la partita con il Pisa, ma fa un patto negli spogliatoi: vinciamo almeno una coppa per il presidente. A febbraio ricomincia la Coppa Italia e l’ostacolo per i giallorossi si chiama Juventus: i bianconeri vivono un’annata complessa che si rivelerà un disastro poiché l’esperimento legato al nuovo tecnico Maifredi non porterà i frutti sperati. Eppure, nella gara di andata allo stadio Olimpico il 7 febbraio, la Juve strappa un ottimo 1-1 da difendere nel ritorno a Torino del 20 febbraio. Sarà, invece, la grande notte della Roma che vincerà 2-0 grazie ai gol di Berthold e Rizzitelli che valgono la semifinale contro i campioni d’Europa e del mondo del Milan di Sacchi.

E, mentre in campionato la compagine di Ottavio Bianchi continua ad arrancare a ridosso della zona Uefa, nelle coppe continua ad andare a gonfie vele. Anche quando riprende la Coppa Uefa ai primi di marzo, infatti, la Roma elimina i belgi dell’Anderlecht vincendo 3-0 all’Olimpico e 3-2 in terra fiamminga, approdando in semifinale dove affronterà i sorprendenti danesi del Brondby. E’ il momento decisivo della stagione, i giallorossi sacrificano (anche inconsciamente) il campionato per raggiungere le due finali di coppa, traguardo che sarebbe di assoluto prestigio per una squadra buona ma non eccezionale. Il 13 marzo si gioca la semifinale di andata di Coppa Italia e la Roma pareggia 0-0 a San Siro contro il Milan, risultato pericoloso in vista del ritorno all’Olimpico, previsto per il 2 aprile. Sarà quella la serata di Giovanni Cervone, portiere dai modi bruschi e dalle parate istintive. La Roma segna al 23′ con un tiro di Amedeo Carboni deviato in porta addirittura da Marco Van Basten, poi difende il risultato fino al 90′ subendo una pressione indicibile da parte del Milan che effettuerà addirittura 17 tiri senza trovare la via del gol.

Il triplice fischio dell’arbitro D’Elia è una liberazione per i tifosi giallorossi che festeggiano l’approdo in finale, sofferto ma fondamentale, contro quella che a tutti gli effetti è in quel momento la squadra più forte del mondo, il Milan per l’appunto. Ma non c’è troppo tempo per crogiolarsi, perché da portare a casa c’è un’altra finale, quella di Coppa Uefa. La Roma soffre in Danimarca e strappa un altro 0-0 in trasferta, poi si prepara alla battaglia col Brondby in casa il 24 aprile. Il gol di Rizzitelli al 33′ sembra mettere in discesa la partita, ma i danesi non ci stanno, attaccano e alla fine pareggiano con un’autorete di Nela al 65′. La squadra di Bianchi è nel panico, si getta all’assalto dei gialloblu scandinavi per trovare il gol qualificazione, i danesi si difendono, cercano di innervosire i giallorossi e provano a colpire in contropiede. Quando ormai le speranze sono ridotte al lumicino, al minuto 88 nell’area di rigore del Brondby si accende una mischia che Voller risolve sottomisura facendo esplodere lo stadio Olimpico in uno dei boati più fragorosi di quegli anni.

La Roma è in finale di Coppa Uefa e di Coppa Italia, pazienza se in campionato la squadra giunga nona e dunque fuori dalle zone europee. Ottavio Bianchi ha patito anche qualche critica per il gioco e per i risultati scadenti in serie A, eppure la Roma ha la possibilità di vincere due trofei nella stessa annata, impresa mai riuscita ai giallorossi nella propria storia. L’8 maggio 1991 la formazione romanista va a San Siro per l’andata della finale di Coppa Uefa contro l’Inter, per la seconda volta di fila l’ultimo atto della competizione è tutto italiano dopo la sfida dell’anno precedente tra Juventus e Fiorentina. Le squadre si conoscono, la gara è tattica, nessuno vuol fare la prima mossa; il primo tempo termina 0-0, poi al 56′ Berti si guadagna un rigore abbastanza dubbio che Lothar Matthaus trasforma per l’1-0 interista che sblocca i nerazzurri, capaci di raddoppiare con lo stesso Berti al 72′. Il 2-0 finale è severissimo per la Roma, ma soprattutto pone i giallorossi di fronte ad una scalata ripidissima in vista del ritorno.

Lo stadio Olimpico è quasi commovente il 22 maggio, nonostante la Roma abbia appena il 20, forse 25% di strappare la coppa all’Inter che, a dirla tutta, dispone di un organico nettamente superiore a quello romanista. Ma la squadra di Bianchi attacca a testa bassa, spinge più col cuore e con l’anima che con la tecnica e gli schemi, l’Inter inizialmente è spavalda, poi incomincia ad avere paura; anni dopo Giuseppe Bergomi dirà: “Ci guardavamo in faccia e pensavamo: se ci fanno un gol per noi si mette male“. Ma il gol della Roma non arriva, il pubblico intanto canta, è una bolgia, crede nel miracolo come contro il Brondby e all’80’ è premiato quando Rizzitelli riesce a battere Zenga: 1-0 ed ora i giallorossi hanno dieci minuti per pareggiare i conti e portare la contesa ai supplementari. Una manciata di secondi dopo, con l’Inter completamente in bambola, lo stesso Rizzitelli sfiora il 2-0 di testa, gli spalti tremano, sembra che lo stadio debba crollare da un momento all’altro. Gli assalti, però, non bastano, l’Inter tiene e porta a casa la coppa.

La delusione è forte in casa romanista, ma le speranze di vincere qualcosa ci sono ancora e sono riposte nell’altra finale, quella di Coppa Italia che vedrà i giallorossi opposti ai freschi campioni d’Italia della Sampdoria. Anche in questo caso i favori pendono dall’altra parte, ma stavolta si ha presto la sensazione che i sampdoriani siano distratti dall’euforia tricolore: Vialli, Cerezo e Bonetti si sono tinti i capelli di biondo, Lombardo si è messo una parrucca sulla pelata, insomma l’impressione è che i genovesi siano tutt’altro che concentrati dopo la sbornia dello scudetto. La Roma, viceversa, è carica, vuole il trofeo, lo vuole dedicare alla memoria di Dino Viola, a sua moglie Flora che con grande dignità ha tenuto la società per tre mesi prima della cessione (che si rivelerà sciagurata) all’imprenditore Ciarrapico. Il 30 maggio la Roma all’Olimpico ha voglia di vincere, la Sampdoria è superficiale e la gara termina 3-1 per i giallorossi con autorete di Luca Pellegrini, pareggio di Katanec e reti di Berthold e Voller, tutto nel primo tempo.

La Roma è dunque ad un passo dal trionfo, ma a Genova non sarà semplice perché la Sampdoria è comunque squadra fortissima che, smaltite le feste, sembra volersi portare a casa la doppietta scudetto-Coppa Italia, riuscita al Napoli nel 1987. A Marassi il 9 giugno 1991 c’è quasi il pienone e tanti sono anche i sostenitori romanisti, bramosi di conquistare un trofeo in quella stagione così particolare. La carica della Sampdoria dura un tempo, giusto per qualche attacco che possa riaprire il discorso; poi ad inizio ripresa, la Roma usufruisce di un calcio di rigore che Voller trasforma per lo 0-1 che, in pratica, mette fine al confronto poiché ai liguri ora servirebbero 3 reti solo per andare ai tempi supplementari. Ne arriva una sola, quella scaturita da un cross di Cerezo deviato nella propria porta da Aldair: 1-1, poi è soltanto attesa per il fischio finale che consegna alla Roma la Coppa Italia a 7 anni dall’ultima volta. Ad alzare il trofeo è Flora Viola, scontata la dedica per lo storico presidente, mantenuta la promessa dei giocatori di dedicargli una vittoria.

La Roma chiude la stagione 90-91 con una coppa e due finali, un risultato di tutto rispetto per una squadra di certo lontana dai fasti di qualche anno prima. Eppure, attorno alla formazione di Ottavio Bianchi serpeggerà, anche nell’annata successiva, un alone di scetticismo, ogni errore verrà enfatizzato e l’allenatore lascerà la capitale a maggio del 1992 dopo feroci contestazioni. Nelle interviste dirà sempre di non capire il perché di tanto livore e per questo diventerà noto come “antipatico” nelle dichiarazioni, eppure tutti i torti non li aveva: la sua Roma, volenti o nolenti, ha sfiorato una doppietta che in Italia quasi nessuno è riuscito a conquistare.

di Marco Milan

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