Amarcord: il triste saluto del Principe

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Quel soprannome, “Principe“, glielo aveva dato Odoacre Chierico negli anni ottanta, perché Giuseppe Giannini quando avanzava palla al piede era elegante e bello come un principe, anche se la sua Roma non aveva i tratti nobiliari, però lottava e faceva impazzire i suoi tifosi. 15 anni in giallorosso e poi l’addio, triste e struggente, rovinato proprio da chi di quel principe si era innamorato.

Giuseppe Giannini, classe 1964, aveva già lasciato Roma e la Roma nell’estate del 1996 dopo 15 anni, la fascia di capitano, 437 presenze totali e 75 gol, ed una carriera chiusa fra Austria (un anno allo Sturm Graz), Napoli e Lecce, ultima tappa della sua vita sportiva con annessa promozione dalla serie B alla serie A e scarpini appesi al chiodo a giugno del 1999 con un’altra maglia giallorossa addosso, segno quei colori erano nel destino, nell’anima e nel cuore dell’ex regista romanista. Una carriera con successi e trofei inversamente proporzionali al talento, colpa dei tempi, di una Roma meno competitiva dei primi anni ottanta e non ancora all’apice delle possibilità della presidenza legata a Franco Sensi, uomo con cui Giannini aveva avuto un rapporto controverso, spesso accusato di non essere quel capitano carismatico di cui la Roma aveva bisogno, addirittura crocifisso dal patron dopo un calcio di rigore fallito nel derby perso contro la Lazio il 6 marzo 1994, appena due settimane prima di quel gol a Foggia che sancì un 1-1 preziosissimo per una Roma in piena crisi e a rischio risucchio nella zona retrocessione, e che il capitano giallorosso festeggiò sotto i suoi tifosi con tanto di lacrime su quella maglia che per lui era più di una seconda pelle.

L’ora dell’addio, però, è arrivata e all’inizio della stagione 1999-2000, la prima da “pensionato“, Giuseppe Giannini prepara la sua partita di commiato che si terrà a metà maggio allo stadio Olimpico con il confronto fra vecchie glorie della sua Roma e la Nazionale di Italia ’90, così da raccogliere in 90 minuti quasi tutti i compagni di vent’anni di carriera. Ciò che l’ex capitano ancora non sa, però, è che il contesto di quella serata sarà più pesante e complicato del previsto, perché nel frattempo la Roma di Fabio Capello sta incontrando parecchie difficoltà in un campionato che la vede staccarsi dalle zone alte della classifica nonostante un buonissimo girone d’andata con tanto di derby stravinto contro la Lazio con 4 gol segnati in appena mezz’ora. Proprio i cugini biancocelesti, però, lentamente risalgono la china, contendono lo scudetto alla Juventus avvicinandosi sempre più al primo posto dei bianconeri, tanto che i tifosi romanisti, spaventati e increduli di fronte al possibile tricolore laziale, iniziano ad augurarsi che la tanto odiata Juve resista fino alla fine, esponendo allo stadio Olimpico uno striscione che farà epoca: “M’hai ridotto a tifà Juve“. Il clima è pesante, la tifoseria romanista in rivolta, il bersaglio è il presidente Sensi che continua a parlare di Roma da scudetto senza che i risultati gli diano ragione.

Il 14 maggio 2000 la Lazio all’ultima giornata compie il sorpasso sulla Juventus e vince un incredibile scudetto, mentre la Roma si accontenta del solito piazzamento in Coppa Uefa al termine di un campionato tutt’altro che soddisfacente. Il vaso è colmo, i tifosi insorgono, Sensi tenta di fare la voce grossa, parla di campagna acquisti importante nell’estate che si avvicina e intanto i giornali iniziano a scrivere articoli sul derby di mercato fra Lazio e Roma per Gabriel Omar Batistuta, in uscita dalla Fiorentina. Ma nessun romanista ci crede, lo scudetto dei dirimpettai cittadini ha offuscato la vista degli appassionati giallorossi che ora vedono tutto nero di fronte a loro, mentre nel frattempo i laziali li coprono di sfottò. Nel mezzo di questo caos, il 17 maggio si incastra la partita di addio di Giuseppe Giannini che, almeno in teoria, col presente non c’entra nulla e sarebbe anzi un modo per evadere da quella realtà poco simpatica e tornare con la mente indietro nel tempo. O almeno questo è ciò che si augura l’ex capitano che vuole dire addio al calcio e alla sua Roma in una cornice tutta giallorossa, in cui magari si piangerà di gioia mista a malinconia, ma dove di rabbia e contestazione non dovrebbe esserci neanche l’ombra.

La sera del 17 maggio 2000, a soli tre giorni da quello scudetto della Lazio che nessuno nella parte romanista della capitale è riuscito ancora a mandar giù, l’Olimpico riaccoglie il suo Principe per salutarlo, rendergli omaggio e ringraziarlo per quei 15 anni di amore e fedeltà. In campo, oltre all’ex numero 10 giallorosso, ci sono tanti campioni del passato: nella “vecchia” Roma ecco Bruno Conti, Ubaldo Righetti, Franco Tancredi, Aldo Maldera, l’austriaco Prohaska; nella Nazionale di Italia ’90, poi, spazio a Pietro Vierchowod (peraltro anche campione d’Italia con la Roma nel 1983), a Franco Baresi, a Giuseppe Bergomi, oltre ad Andrea Carnevale, altro ex romanista. Il primo tempo è effettivamente festoso, la partita è sull’1-1, reti di Voeller e Carnevale, Giannini ha giocato con la maglia azzurra della Nazionale e per i secondi 45 minuti è pronto a mettersi quella della Roma con cui poi potrà salutare il pubblico. Un secondo tempo che però non si giocherà mai, negando al vecchio principe il commiato tanto sognato e quel tributo che la sua militanza romanista avrebbe meritato. In quei 15 minuti di pausa, infatti, l’Olimpico si trasforma improvvisamente da appassionato ad ostile, da innamorato a rancoroso, come se ad un tratto fossero stati tutti morsi da un animale velenoso.

Diversi spettatori, infatti, approfittando del clima amichevole della gara e dunque dei controlli più blandi, scavalcano le cancellate dello stadio e piombano in campo, non per far festa, però, bensì per sfogare tutta la loro frustrazione. La gente entra in campo, sradica le reti delle porte e si aggrappa alle traverse dondolandosi come Tarzan, oltre a strappare ciuffi e zolle d’erba, mentre i tifosi rimasti sugli spalti intonano cori di scherno e di protesta. Nessuno ce l’ha con Giannini, ben inteso, il bersaglio della critica è Franco Sensi, ma a conti fatti l’unico a rimetterci è proprio l’ex capitano che prova a rabbonire il suo popolo parlando al microfono, mentre intanto la rabbia monta ancora di più e nel vociare generale si sente benissimo la sarcastica richiesta del pubblico al presidente romanista: “Batistuta dove sta?“, ironizzando su un acquisto che, secondo molti, Sensi non sarà in grado di sostenere. Giannini, nel frattempo, prova a ristabilire l’ordine, quasi singhiozza al microfono, vuole salutare i suoi tifosi e vuole farlo con la maglia della Roma addosso, ma la situazione degenera sempre di più. “Non doveva finire così – riesce a malapena a dire il Principe dall’altoparlante – doveva finire con qualcosa di meglio“.

La partita è ormai rovinata, sgombrare quella folla e riportare i tifosi alla calma è pura utopia, appare evidente che a prendere il sopravvento sia stato il comune sentimento di frustrazione, quei bocconi amarissimi mandati giù negli ultimi anni e sfociati con quello scudetto vinto dalla Lazio appena tre giorni prima e che è stata la classica goccia a far traboccare il vaso. “Non è colpa mia se la Lazio ha vinto lo scudetto domenica“, pensa Giannini, ed ha perfettamente ragione: quella sera lo stadio Olimpico doveva rappresentare altro, andando anche al di là dell’attualità, del presente, della situazione negativa della squadra del cuore. Quella era la sera del Principe, è diventata la serata del caos. I laziali gongolano, per fortuna dei romanisti non esistono ancora i social network, i meme e Whatsapp, gli sfottò si limitano alle prese in giro a scuola e negli uffici. Qualcuno in curva viene comunque mosso a pietà e dopo qualche minuto si alza uno striscione con la scritta “Scusa“, ma è ormai tardi, la frittata è fatta e si è pure attaccata sul fondo della padella. La serata è finita così, nel peggiore dei modi, senza saluti, senza ovazioni, senza ringraziamenti al vecchio capitano.

Il giorno seguente, tutti i quotidiani sportivi danno risalto all’addio del Principe, a quel nodo in gola di un Giannini ora chiuso in un doloroso silenzio. Poche settimane dopo, poi, il paradosso vedrà la Roma presentare Gabriel Omar Batistuta sotto quella stessa curva che ironizzava sul suo possibile arrivo e su quello stesso campo che aveva trafitto il cuore di Giannini e l’orgoglio di Franco Sensi, davvero determinato a regalare ai tifosi una Roma da scudetto. Un anno e un mese dopo quella serata, il 17 giugno 2001, la Roma di Capello festeggia la conquista dello scudetto numero 3 della sua storia, sempre all’Olimpico e sempre di fronte a quella gente che un anno e un mese prima aveva contestato tutto e tutti. Stavolta si ride, si balla, si canta, ci si ubriaca di felicità. Senza Principe.

di Marco Milan

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