Un giorno da operatore alla mensa della Caritas

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Un racconto misto a realtà che testimonia la semplicità delle piccole cose, la ricerca della Fede, il valore inestimabile del tempo

45 minuti. Primo, secondo, frutta e dolce vengono spazzati via come se fosse passato un uragano. Invece si tratta di novanta bocche desiderose di essere sfamate, che in una domenica di febbraio affollano una delle tante mense della Caritas di Bari. Bea si è proposta come volontaria per preparare il pranzo insieme ad alcune donne e uomini che frequentano da anni la stessa parrocchia. È la prima volta che si lancia in questa esperienza. “È come una catena di montaggio” le avevano detto coloro che erano già stati alla mensa. “Non ti preoccupare, è un po’ impegnativo, ma poi senti di aver fatto qualcosa di utile per i più bisognosi”.

Dalle 11.30 iniziano ad arrivare gli ospiti. Diverse nazionalità, diverse storie, diversi vissuti. Bea è curiosa e si affaccia appena fuori dalla cucina. Poi si fa coraggio e inizia a girare tra i tavoli nascondendo un leggero imbarazzo dietro il suo bel sorriso. A loro non importa se fuori fa caldo o freddo, non importa se oggi hai deciso di indossare quel vestito piuttosto che quelle scarpe, a loro non importa se ti fermi a compatirli oppure se passi con indifferenza. Loro sanno di essere invisibili. A loro interessa rimediare un pasto caldo per arrivare alla fine della giornata. Quella stessa giornata che tu magari, per un qualsiasi motivo, stai maledicendo e non vedi l’ora che passi. Perché tu puoi sperare che ci siano giorni migliori. Semplicemente tu puoi sperare.

Bea è sorpresa dal silenzio che aleggia mentre quelle novanta persone apprezzano la loro porzione di cibo generosamente offerto, non lasciando nemmeno una briciola. “Signora lei è nuova qui?” Le domanda con garbo una donna sulla cinquantina dall’accento milanese. “Si” risponde Bea. “Io ho studiato in Lombardia. Sono infermiera professionale”, continua mentre rifila in un sacco un avanzo di pane.

A quel punto Bea non teme più di incontrare i loro sguardi. Alle 14 è già fuori dalla mensa. Tutti i tavoli sono stati sistemati e la cucina ripulita. Le sembra di aver vissuto un mese e un minuto insieme. La percezione del tempo è cambiata. Un bene inestimabile da custodire. Saluta cordialmente gli altri operatori: è grata per aver condiviso insieme quella mattinata. Sale in macchina e in poco tempo raggiunge la propria casa; nel tragitto la musica dello stereo soffoca la voglia di urlare che improvvisamente la pervade. Inizia a chiedersi perché sia andata alla mensa quella domenica. Cosa pensava di vedere? Cosa voleva dimostrare e a chi?

Un raggio di sole fioco penetra negli occhi, mentre fuori l’aria, più calda del solito, sembra portare con sé l’annuncio della primavera. L’illusione dura un attimo: appena Bea rientra a casa la pioggia inizia a picchiare forte. Sfinita, getta la borsa sul pavimento e lascia andare il suo corpo sul divano socchiudendo gli occhi. Ma una voce vince il sonno che stava per avere la meglio: “Mamma!” Un bimbo di appena tre anni interrompe l’insolito silenzio. Improvvisamente Bea si solleva mentre guarda suo figlio farsi incontro e piombarle sul petto quasi volendole entrare nel cuore. Lei lo stringe forte avvertendo uno strano senso di pace e di conforto. Da quella volta Bea ha deciso di vivere senza sensi di colpa.

(di Anna Piscopo)

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