Isis contro i monumenti: è pulizia culturale

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isisQuest’estate, l’ISIS ha continuato a essere protagonista della cronaca internazionale non solo per le continue atrocità verso donne, uomini e bambini, ma anche per gli scempi compiuti su luoghi sacri e opere di estremo valore artistico e storico.

Ad agosto gli jihadisti del Califfo hanno distrutto il santuario di Baal Shamin, uno dei principali templi all’interno del sito archeologico di Palmira, antica città della Siria dichiarata dall’UNESCO “patrimonio dell’umanità”, caduta nelle mani degli “uomini in nero” il 20 maggio scorso.

Prima ancora, un bulldozer del Califfato aveva buttato giù le millenarie mura del monastero cristiano di Mar Elian, risalente al V secolo e situato a pochi chilometri da Palmira. E a marzo era toccato ai siti archeologici di Nimrud e di Hatra.

Tragica anche la barbara uccisione dell’archeologo siriano Khaled Asaad, “colpevole” di non aver rivelato il nascondiglio dei tesori di Palmira. Asaad era uno dei pochi studiosi a parlare aramaico ed era in prima linea per difendere la diversità culturale, artistica e storico-religiosa della sua terra. La sua uccisione ha suscitato durissime reazioni internazionali e profonda indignazione in tutto il mondo.

Quelli appena citati sono solo alcuni dei più recenti atti di violenza e di “pulizia culturale” che la rabbia e l’invidia iconoclasta dell’IS sta portando avanti in nome dell’Islam verso il “Patrimonio culturale dell’umanità”.

Si legge sul sito dell’UNESCO, che per “Patrimonio culturale” si intende “un monumento, un gruppo di edifici o un sito di valore storico, estetico, archeologico, scientifico, etnologico o antropologico”. Esso rappresenta “l’eredità del passato di cui noi oggi beneficiamo e che trasmettiamo alle generazioni future, fonte insostituibile di vita e di ispirazione”. La sua distruzione è uno degli obiettivi primari dell’IS: distruggere luoghi storici e sacri, provoca sofferenza per tutti perché sono beni che appartengono a tutte le popolazioni del mondo, al di là dei confini territoriali nei quali si trovano.

Il “Patrimonio culturale” è legato all’identità dei popoli e ai suoi “valori”: tolleranza e rispetto, dialogo e convivenza. La strategia totalitaria dell’IS è quella di cancellare le radici comuni, sottomettere le genti e indottrinarle, privandole di spirito critico. Inoltre, la tutela e la conservazione del “Patrimonio culturale” rappresentano anche un problema di sicurezza internazionale ed emergenza umanitaria giacché l’articolo 8 dello Statuto della Corte Penale Internazionale del 1998 elenca, tra i crimini di guerra, anche gli atti intenzionalmente compiuti contro i beni culturali.

Durante le guerre civili e internazionali, il “Patrimonio culturale” è spesso a rischio poiché la distruzione della memoria storica dell’avversario è fra i principali obiettivi delle Parti in guerra.

La distruzione di luoghi di culto cattolici e ortodossi (chiese e monasteri) durante i conflitti nell’ex Jugoslavia e quella, per mano dei talebani, dei Buddha di Bamiyan in Afghanistan nel 2001; gli attacchi nell’estate 2013, a Timbuctu, la città del Mali riconosciuta “Patrimonio dell’Umanità” per le sue antiche moschee, per le migliaia di manoscritti e codici medioevali, sono solo alcuni esempi di crimini che la comunità internazionale non vuole si verifichino più.

È dalla fine del diciannovesimo secolo che gli Stati predispongono forme di tutela verso i beni culturali in tempo di guerra grazie a convenzioni e accordi di pace che vietano il saccheggio e impongono la restituzione dei beni storico-culturali sottratti agli Stati durante un conflitto armato. Tra questi, la Convenzione dell’Aja del 1954. Oltre a vietare l’esportazione dei beni culturali di un Paese occupato, ne impone la restituzione alla fine delle ostilità e predispone strumenti volti a rafforzare la cooperazione fra gli Stati. Il regime di protezione previsto dalla Convenzione è di due tipi: generale (concessa a tutti i beni culturali) e speciale (concessa a un limitato numero di beni culturali di grande importanza iscritti in un apposito Registro e muniti di un logo, lo Scudo blu, che riconosce loro l’immunità ossia il divieto di compiere qualsiasi atto ostile nei loro confronti. Tuttavia, le parti in conflitto possono non riconoscere l’immunità se la controparte, per prima, viola l’obbligo di immunità. Inoltre, la procedura di iscrizione per la protezione speciale è lunga e complessa, cosicché nel Registro sono iscritti soltanto pochi beni culturali ad esempio, Città del Vaticano).

La Convenzione presenta dei limiti: non esiste un organo permanente che vigila sull’applicazione delle regole e le procedure di intervento sono macchinose e pertanto, poco efficaci. Inoltre, pur esistendo un sistema di tutela che distingue tra responsabilità internazionale dello Stato (con l’obbligo di riparare il torto arrecato) e responsabilità penale individuale per violazioni gravi (distruzione su larga scala di beni culturali protetti dalla Convenzione; rubare, saccheggiare o appropriarsi in maniera indebita, dei beni protetti dalla Convenzione; compiere atti vandalici contro di essi) e altre violazioni, solo per le prime sono previste misure di carattere penale.

È inutile negare che all’inizio della guerra in Siria e della nascita del Daish, la comunità internazionale non riteneva prioritaria la salvaguardia del patrimonio culturale in quell’area di conflitto. Era importante salvare le persone, evitare massacri, genocidi e altri crimini contro l’umanità. Oggi, questo resta prioritario, sebbene “Non si tratta di scegliere tra persone e pietre. Si tratta di un’unica battaglia”. Sono le parole dell’attuale Direttore Generale dell’Unesco, Irina Bokova.

Nonostante la governance internazionale sia adesso più consapevole della estrema gravità di tali crimini, sussistono limiti nell’attività di reazione degli Stati coinvolti (è bene ricordare che la Siria è uno Stato in guerra e l’Iraq è di fatto uno “Stato fallito” cioè uno Stato al collasso che non ha nessun controllo effettivo del suo territorio e delle frontiere), dell’UNESCO e degli strumenti pattizi a disposizione. Tuttavia, a causa dell’accelerazione di tali crimini, sono stati fatti passi in avanti nell’ultimo anno. La signora Bokova ha annunciato una sua missione al Parlamento Europeo a settembre, per chiedere che la Commissione adotti una legge più forte per tracciare un oggetto d’arte appena entra nei confini europei. Un intervento che segue la strada tracciata lo scorso febbraio dalle Nazioni Unite che, con la Risoluzione 2199, vuole contrastare il traffico illegale di opere d’arte, una delle fonti di finanziamento dell’IS e del terrorismo internazionale.

(di Alessandra Esposito)

 

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