Foibe ed esodo. L’orrendo equivoco: italiani tutti fascisti. Ma fra le vittime tanti innocenti e anche antifascisti

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di Vincenzo Arena

Foibe ed esodo. Per parlare e scrivere di questa drammatica pagina di storia nel nostro Paese bisogna procedere con cautela, come equilibristi su un filo sottilissimo a strapiombo su un burrone. Un precipizio pronto ad ingoiarti fra accuse di revisionismo, di apologia del fascismo e di oltraggio alla resistenza.

Il 10 febbraio e il 27 gennaio dovrebbero essere giorni di ricordo, memoria e pacificazione. Tutti – e dico tutti – dovremmo schierarci contro le aberrazioni della storia, contro i misfatti che i neri o i rossi hanno compiuto nell’ormai tramontato “Secolo Breve”. Tutto ciò premesso, non voglio lasciarmi andare alla solita dissertazione che rischia di scatenare un prevedibile e inutile dibattito fra opposte interpretazioni storiografiche. Quest’anno vi chiederei di leggere, accettare – rifiutare, se riterrete – con rispetto e senza polemiche viziate dall’ideologia, le parole degli “esuli” e dei “rimasti”, di chi fra 1943 e i Cinquanta in Istria, in Dalmazia, da Capodistria a Rovigno a Pola ha “visto” sparire nelle foibe i propri cari, ha dovuto abbandonare le proprie città, o di chi ha scelto di restare in quelle terre ormai sotto la dominazione comunista.

Non giudico, non interpreto, non vi propongo una chiave di lettura. Vi invito solamente a leggere questi  passi – tratti dal libro del giornalista Jan Bernas “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani” – e sarete voi lettori a giudicare e interpretare, se riterrete. Vi preannuncio solamente la pubblicazione nelle prossime settimane sul nostro periodico di un’intervista allo stesso Bernas, autore dello spettacolo di Simone Cristicchi “Magazzino 18”. Una piece teatrale che in alcuni teatri del nord e del centro Italia ha scatenato proteste e attacchi violenti da parte della sinistra italiana più oltranzista. Approfondiremo nei prossimi giorni, con lo stesso Bernas, questi episodi. Solo un’ulteriore informazione di servizio: “Magazzino 18” sarà trasmesso da Rai Uno stasera alle 23:45.

Oggi vi lascio, dunque, silenziosamente alle parole di un esule e di un rimasto. Degli infoibati, dei “dispersi”, delle donne violentate e torturate come Norma Cossetto saprete già. Ecco invece le parole esemplari di Sergio Bormè e di Nella Smilovich. Esemplari, sì! Scoprirete, leggendo, perchè. Buona lettura

Sergio Bormè (Rovigno, esule): l’antifascista torturato, internato e costretto all’esilio

Sono nato a Rovigno nel 1925 da una famiglia di estrazione comunista. Mio padre Giuseppe era, come si direbbe oggi, un fanatico. Io, mio fratello più grande e mia sorella siamo cresciuti, si potrebbe dire, a pane, acqua, falce e martello. Con la fine della Prima Guerra Mondiale (…) l’Istria tornò sotto la sovranità italiana. Quando il fascismo raggiuse il potere, come nel resto del Paese, anche a Rovigno di instaurò il regime.

(…) Con lo scoppio della guerra [Seconda Guerra Mondiale] io, mio fratello e mio padre avemmo un ruolo importante nel supporto alla lotta antifascista a Rovigno. Attività che si intensificarono fortemente dopo l’8 settembre, con l’arrivo dei tedeschi. (…) Il rischio di venire scoperti era alto ma continuammo la nostra opera, convinti che alla fine della guerra si sarrebbe realizzato il sogno di mio padre: l’avvento del comunismo. (…) Quando dal bosco, iniziarono ad arrivare i primi volantini ciclostilati di propaganda filoslava, cominciammo a capire quelle che erano le intenzioni dei partigiani titini. Interrompemmo quindi la collaborazione con loro immediatamente, dando vita ad azioni anti tedesche indipendenti. I nostri volantini finivano sempre con “Viva l’Italia”.

Quando poi a fine guerra, divenne ormai chiaro che l’Istria sarebbe passata in mano jugoslava, decidemmo di partire e di lasciare Rovigno. Alcuni giorni prima della partenza mio padre fu avvicinato sul posto di lavoro da più esponenti dell’antifascismo rovignese (…). Riuscirono a convincerlo a restare.

(…) Non dovemmo attendere troppo per renderci conto di cosa di lì a poco sarebbe accaduto. Di notte, le persone iniziarono a sparire, senza fare più ritorno. Non si trattava di fascisti. Quelli più compromessi con il regime, fiutato il pericolo, se n’erano già andati. Chi invece veniva prelevato (…) era gente che si opponeva alla slavizzazione di Rovigno e dell’Istria.

(…) il 9 ottobre 1949 fui arrestato dall’UDBA [la polizia segreta di Tito] con l’imputazione di aver compiuto preparativi per una fuga in Italia. Stavo suonando il violino in casa, quando vennero ad arrestarmi.(…) Nella sede della UDBA di Rovigno fui interrogato da un certo Angelo Blaskovich, un agente italiano fedele agli slavi. Insieme a una donna e a un terza persona, fui bastonato e torturato. (…) Blaskovich sembrava un automa. Faceva e basta. Mi applicò ai polsi manette molto strette “armate” di aculei. Ad ogni mio movimento le punte penetravano sempre più nelle articolazioni (…). Mi strapparono le sopracciglia e i capelli dalle tempie, mi sfregavano gli occhi con dei peperoncini, mentre con il calcio di una pistola venivo colpito ai gomiti. Alla fine mi schiacciarono le dita dei piedi, il tutto cadenzato da pugni e schiaffi che mi piovevano addosso.

[Bormè subisce tre processi e dopo il terzo di questi viene condannato, racconta, a due anni di rieducazione nel campo di concentramento di Goli Otok, l’Isola Calva] Venimmo smistati in ventiquattro baracche che sorgevano nel lager. Ogni baracca ospitava in media duecento prigonieri. Per riposarci avevamo a disposizione dei “box”, ossia un tavolato a tre piani sovrapposti. Lo spazio era minimo. Stipati come sardine in scatola, potevamo coricarci solo di fianco. Tutte le baracche erano infestate da cimici e pidocchi. (…) Nei giorni immediatamente successivi all’arrivo, in ogni baracca avveniva (…) una sorta di processo, a cui ognuno di noi era sottoposto. Il sobni [una specie di giudice] insisteva perchè rivelassimo nomi di amici, parenti, conoscenti che in qualche modo potessero rappresentare un pericolo per la nazione jugoslava. (…) Se, per qualche ragione, il sobni riteneva che l’imputato non avesse detto la verità, questi veniva picchiato, a volte fino alla morte, dai suoi stessi compagni di baracca. (…) Tutti, me compreso, abbiamo pensato al suicidio come possibile via d’uscita da quell’inferno. Un atto estremo di liberazione. Ma a Goli Otok, paradossalmente, anche morire si era trasformato in un sogno pressocchè irrealizzabile. La sorveglianza era strettissima.

(…) In media dopo due o tre anni, un prigioniero era considerato “rieducato” e veniva rimesso in libertà. La mia scarcerazione arrivò un giorno qualsiasi. (…) Tornato a casa trovai ad accoglermi mio padre e mio fratello. Mia madre era morta di crepacuore. Mia sorella e il marito erano riusciti a venire in Italia. (…) Non volevo rimanere a Rovigno. Non potevo restare in Jugoslavia dopo tutto ciò che avevo vissuto. Contattai quindi il console italiano a Capodistria che riuscì a svincolarmi dalla cittadinanza jugoslava e a farmi avere un passaporto turistico italiano. (…) Così, da solo, partì. Presi il passaporto e venni in Italia. A Pavia, da mia sorella. Lì mi laureai in Lettere e iniziai una nuova vita, insegnando. Era il 1955.

Nella Smilovich (Pola, rimasta): scampata alla strage dimenticata sulla spiaggia di Vergarolla

Avevo dodici anni quando scoppiarono le mine a Pola, sulla spiaggia cittadina di Vergarolla. Era una bella e calda giornata estiva. Era il 18 agosto 1946, il giorno delle gare di nuoto e di vela della polisportiva Petras Julia. (…) Gli slavi avevano occupato Pola nei primi giorni di maggio e solo con l’accordo di Belgrado del 9 giugno, l’amministrazione della città passò nelle mani degli Alleati. Ci aspettavamo che da un momento all’altro i titini, accampati nei dintorni, tornassero. Alla fine decidemmo di andare. Facemmo il bagno, pranzando tutti insieme all’ombra della pineta (…). Dopo pranzo, rimasti senza acqua mi alzai per andare a prenderla: “Vado io”, dissi. Così mi incamminai verso la fontanella che si trovava dall’altro lato della pineta. (…) Mi abbassai allora per sciacquarmi la faccia e rinfrescarmi.

All’improvviso un boato enorme (…) La luce del sole si oscurò per la polvere e la sabbia sollevate dall’esplosione. Sembrava un’eclissi. Era buio come la notte. (…) Quando alzai gli occhi rimasi pietrificata, immersa nella paura. Scappavano tutti. Uomini e donne con i bambini in braccio. (…) Vidi mio padre ansimante che mi cercava (…). “Mamma dov’è? Ma che è successo?”, chiesi impaurita a mio padre, che senza dirmi nienti mi strinse forte la mano portandomi fuori dalla casermetta. Quando arrivammo alla pineta, capii. Quello che mi si parava davanti agli occhi era un inferno.

Una donna disperata, accasciata a terra. Piangeva, piangeva senza sosta. Gridava aiuto. Aiuto per i due figli. Uno era immobile, morto. L’altro ancora si muoveva. Mio padre lo prese in braccio e lo mise all’ombra. Altro non poteva fare. C’era sangue ovunque. Resti umani seminati dappertutto, finanche sugli alberi. Ricordo ancora i brandelli di carne, poltiglia rossa. Gambe galleggianti in acqua. Una scena terribile. La gente urlava: “Via via! La pineta è minata, salta tutto qui!”. Trovammo mamma sotto un pino (…). L’acqua aveva assunto un color rubino. In superficie galleggiavano pezzi umani. Orrendo.

A Vergarolla, quella bella e maledetta domenica, morirono un centinaio di persone e altrettante rimasero ferite. Erano tutti civili. Su quella spiaggia, accatastate, si trovavano ventotto mine di profondità, residuato bellico. Erano state disattivate, non c’era pericolo. (…) Esplosero. In tutto nove tonnellate di tritolo. Qualcuno le aveva innescate, trasformando quella bella domenica nella più grossa strage della storia italiana.

(…) Ci furono casi estremi di eroismo come quello del medico chirurgo Giuseppe Micheletti, eletto a simbolo della strage di Vergarolla. Era di turno quella domenica. I figli, Carlo e Renzo, di nove e sette anni, erano andati alle gare con gli zii e una cuginetta. Quando giunse la notizia dello scoppio delle mine, Micheletti decise di restare al suo posto. Rimase a operare ininterrottamente per ore con l’angoscia nel cuore, sperando che i figli e i parenti fossero scampati alla tragedia. Il terrore si materializzò quando riconobbe fra i cadaveri i corpi dei due figli, della sorella, del cognato e della nipotina.

(…) Così anche noi nell’inverno del 1947, lasciammo Pola, portandoci quel poco che potevamo. Andammo a Firenze, da alcuni parenti. Ma restammo poco. Mio padre moriva di nostalgia. (…) Così decidemmo di tornare a casa nostra a Pola. Non ci volle molto per capire che avevamo commesso un grave errore. (…) Anche noi, tornando, c’eravamo di colpo trasformati. Nella Jugoslavia di Tito, non eravamo più italiani, ma italiani fascisti. Per gli slavi tutti gli italiani erano fascisti. Optammo due volte per la cittadinanza italiana, per tentare di partire nuovamente. Ma questa volta le autorità slave non ci lasciarono andare e così fummo costretti a rimanere.

Fonte foto: http://www.eastjournal.net/

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