Il mistero dietro la morte di Ferdinando Barbalace, vittima della mafia nella piana di Gioia Tauro

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di Marta Silvestre

Il 26 novembre del 1990, una curva a gomito di una stradina fra gli agrumeti già scarichi dei loro frutti, nel piccolo comune di San Ferdinando di Rosarno, nella piana di Gioia Tauro, è stato lo scenario di un misterioso agguato. L’uomo nel mirino era un commerciante all’ingrosso di agrumi, con precedenti penali in odor di mafia, ex sorvegliato speciale di pubblica sicurezza, Rocco Tripodi. 

Ma, a restare barbaramente ucciso è stato anche Ferdinando Barbalace, un onesto commercialista, sposato e padre di due bambini, che in passato era anche candidato in consiglio comunale.

Probabilmente in mattinata, Tripodi si era recato in uno dei suoi poderi in compagnia di Barbalace,  ragioniere e titolare di un avviato studio di consulenza finanziaria e aziendale. All’ora di pranzo, terminato il lavoro, entrambi avevano deciso di tornare in paese, ognuno con la propria macchina.

Lungo la strada del ritorno, in una stretta curva, nascoste dietro una siepe, almeno tre persone aprono il fuoco. Tripodi viene colpito alla nuca, al volto e al torace e perde il controllo del mezzo che finisce fuori strada. Per infierire ulteriormente sul suo corpo agonizzante, i killer lo colpiscono ai genitali: un macabro segnale tipico della simbologia mafiosa.

Dopo alcuni minuti, quella stessa strada viene percorsa da Barbalace che, vedendo la macchina di Tripodi fuori strada e pensando a un incidente, si ferma tirando il freno a mano e si appresta a soccorrere il suo cliente. In un attimo, dalla siepe spuntano i killer e sparano anche a lui, ferendolo a morte.

Ferdinando Barbalace ha avuto un ruolo assolutamente accidentale, è considerato radicalmente estraneo a qualsiasi giro malavitoso, è una vittima della ferocia e della determinazione di arroganti e violente cosche che divorano voracemente le persone. La storia di Tripodi è, invece, drammaticamente significativa di come agisca, talvolta, la mafia.

I motivi che hanno scatenato i clan contro il commerciante di agrumi sono difficili da individuare, dati i suoi precedenti – reati contro il patrimonio e sorvegliato speciale – e il modo inusuale in cui l’omicidio è stato firmato. Forse, Rocco non aveva accettato alcune regole imposte dai capi o, forse, aveva cercato la scalata al vertice dell’organizzazione, essendo già fra coloro che erano in grado di dialogare a un certo livello con i vertici più potenti delle cosche di quella provincia.

La pista più convincente va percorsa facendo un piccolo salto indietro: il pomeriggio di domenica 18 marzo di quello stesso anno, Michelangelo – figlio dodicenne di Tripodi – si allontana da casa in bicicletta per andare alla partita della squadra locale. Finita la partita, saluta gli amici. Non tornerà più a casa: sparito e inghiottito nel nulla, rimasto vittima di un caso di lupara bianca[1] per ritorsione e vendetta trasversale nei confronti del padre, al quale qualcuno avrebbe voluto impartire una lezione, a causa delle sue losche attività.

L’effetto domino non finisce qui.

La scomparsa nel nulla del ragazzo provoca ancora un’altra vittima, Salvatore Romano, un ragazzo di 21 anni, cugino di Michelangelo ma legato a lui da uno strettissimo rapporto quasi fraterno. Quando di Michelangelo si perdono le tracce, mentre tutti gli altri sembrano rassegnati o, comunque, non capaci di collaborare con la giustizia, Salvatore avvia una serie di controlli, una vera e propria investigazione privata che forse avrebbe potuto portare a qualche risultato se anche lui non fosse stato inghiottito nel profondo e atroce vortice della lupara bianca.


[1] Il corpo di Michelangelo è stato ritrovato sette anni dopo la scomparsa, tramite ammissioni e rivelazioni fatte da alcuni collaboratori di giustizia, massacrato e seppellito dalla ‘ndrangheta sotto quattro metri metri di terra in un agrumeto alla periferia di Gioia Tauro.

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