La storia dell’avvocato Serafino Famà a pochi giorni dall’anniversario della sua morte

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di Marta Silvestre

C’era una volta, in un luogo sconosciuto, Guerrino – figlio di Milone, re di Durazzo, e di sua moglie Fenisia – destinato a un avventuroso viaggio di formazione.

A causa di una guerra contro gli infedeli, da bambino egli viene affidato dai genitori a una balia affinché lo porti in salvo. Purtroppo, viene rapito dai pirati e venduto a un mercante greco che, a sua volta, lo cede all’imperatore di Costantinopoli come compagno per il figlio Alessandro. A corte, Guerrino diviene realmente amico di Alessandro e, inoltre, si innamora di sua sorella Elisena. Fino a quando Guerrino non saprà di chi è figlio, questo suo amore rimarrà tacito e non potrà essere dichiarato. A motivo di ciò, egli inizia a essere chiamato ‘il Meschino’. Per dare in moglie la figlia, l’imperatore decide di indire un torneo al quale possono partecipare soltanto i cavalieri. Con l’aiuto del suo ormai amico Alessandro, Guerrino concorre in modo anonimo ma, pur vincendo le gare dei primi tre giorni, non può ambire al matrimonio con Elisena. Così, la mano della fanciulla viene chiesta da due principi arabi che, all’opporsi dell’imperatore, assediano Costantinopoli. L’imperatore riesce a cacciare i pretendenti e i turchi soprattutto grazie alla collaborazione di Guerrino.

Il Meschino desidera tentare di trovare i propri genitori e l’imperatore, grato, acconsente. Il giovane Guerrino parte, così, alla ricerca del proprio passato.

Era con questa fiaba cavalleresca che Flavia, da bambina, si addormentava ogni notte, ascoltandola dalla voce schietta e trasparente di suo padre. Un padre molto presente che si divertiva con lei a passeggiare in bicicletta o a giocare al mare, che la seguiva con rigore nel momento dei compiti, che andava a prenderla all’uscita di scuola con un trench giallo a bordo di una cinquecento senza autoradio canticchiando brani di Celentano.

Flavia non poteva sapere che, un giorno, la storia di ‘Guerrino il cavalier Meschino’ l’avrebbe un po’ riletta alla luce della propria e di quella di suo padre. Il 9 novembre del 1995 l’avvocato Serafino Famà, appena fuori dalla porta del suo studio, in compagnia di un suo collega, viene ucciso con sette colpi di pistola. Era un avvocato impeccabile e coerente, dedito allo studio delle materie umanistiche e della giurisprudenza, amante del proprio ruolo di difensore della giustizia. E’ proprio per tutto questo che viene ucciso.

Il mandante dell’uccisione di Serafino è Giuseppe Maria Di Giacomo – reggente del clan Laudani e affiliato al clan Santapaola – che fa partire l’ordine direttamente dal carcere di Solicciano.

Di Giacomo era stato arrestato una notte a casa di Stella Corrado – sua cognata e amante – e il codice mafioso stesso non gli avrebbe mai perdonato lo sgarro di essere stato bugiardo e traditore nei confronti degli altri del clan e a favore della moglie di un pentito.

L’avvocato di Di Giacomo, Tommaso Bonfiglio, chiama Stella Corrado come testimone durante il dibattimento sperando possa dire qualcosa che permetta di scagionare il suo assistito. La donna si rivolge al suo avvocato, Famà, che le consiglia di non testimoniare e lei accetta di astenersi, in quanto prossima congiunta di alcuni degli imputati, come previsto dall’articolo 199 del codice di procedura penale. Di Giacomo viene condannato. Serafino Famà viene ucciso per la sua irriducibile difesa del diritto di ogni cittadino a ricevere un giusto processo, per il rispetto incondizionato della legge sempre, comunque e da chiunque.

Di quei giorni, Flavia ricorda il fastidio di essere circondata da troppa gente che le invadeva casa facendo irruzione nel suo privato ma lasciandolo vuoto, e la voglia di saper continuare a immaginare quel mondo fantastico che il padre le donava come materiale per i suoi sogni, cioè la voglia di far finta che non fosse successa questa tragedia, che la sua vita potesse ancora essere normale.

In una prima fase, la relazione fra sfera privata e sfera pubblica non trova equilibrio e pende in favore della prima che è fatta di sensazioni, di ricordi, di pensieri costanti che conducono a una malinconia che assume la forma del silenzio.

Il 21 marzo del 2005 – giornata della Memoria e dell’Impegno di Libera, a Roma – Flavia incontra altri familiari di vittime di mafia e, da quel momento, riesce a trovare la sintesi conciliante fra pubblico e privato e a celebrarli entrambi, nutrendo di vitalità la pratica del ricordo. La condivisione coinvolge e la memoria condivisa, tramite la narrazione, dona la speranza dell’immortalità della storia. Oggi Flavia va nelle scuole a parlare ai ragazzi della bruttezza delle mafie e della bellezza della responsabilità di essere parte civile e responsabile del cambiamento; inoltre, con Libera Internazionale continua ad arricchire la sua sfera privata specchiandosi negli occhi degli altri familiari delle vittime e dei desaparecidos, saldando l’impegno sul dolore.

Il 9 novembre di ogni anno, Flavia non ricorda più solo suo padre, ma tutte le persone impegnate nei loro campi in prima linea. L’impegno è la volontà di cambiare le cose che trasforma la nostalgia in costruzione del futuro nel presente: ogni giorno seminiamo senza sapere quando raccoglieremo i frutti.

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