Libri, “Quando lo Stato uccide”. Intervista agli autori Tommaso Della Longa ed Alessia Lai

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Gli autori di “Quando lo Stato uccide”

Tommaso Della Longa – Nato nel 1980 a Roma, città dove vive e lavora. Giornalista professionista, si occupa di esteri e zone di crisi, con particolare attenzione alla guerra al confine tra Congo e Rwanda, alla questione palestinese e a quella nordirlandese. È stato direttore dell’agenzia di stampa Inedita, ha realizzato diversi reportage per Rai News 24 e collabora con Rinascita, Il Riformista, Il Sole 24 Ore, Secolo d’Italia, Liberal, Area, radio 24 e Radio vaticana. Nella sua vita professionale e privata ha sempre seguito le questioni legate alla violenza delle forze dell’ordine e alle leggi speciali che hanno interessato il mondo ultras.

Alessia Lai – Nata a Cagliari nel 1973 è giornalista professionista e vive e lavora a Roma. È caposervizio esteri della redazione del quotidiano Rinascita, collabora con la rivista Voce del Ribelle in tema di America Latina. Si occupa anche di politica interna e attualità con particolare interesse per le questioni legate all’ordine pubblico, al rispetto dei diritti umani, alla libertà d’espressione e alle leggi speciali contro la violenza negli stadi.

di Valentina Verdini

I manifestanti alla Diaz e a Bolzaneto, Giuseppe Uva, Riccardo Rasman, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Gabriele Sandri sono solo alcune delle storie narrate in “Quando lo Stato uccide” di Tommaso della Longa ed Alessia Lai. Un libro- inchiesta pubblicato nel 2011 da Castelvecchi, un atto dovuto alle vittime di “schegge” impazzite delle forze dell’ordine, corpi indifesi, morti violente che lasciano impietriti familiari, amici, gente comune. Molte di queste vicende sono sconosciute perché trattate con  disattenzione dalle istituzioni, dai media nazionali. Rilegate a qualche trafiletto sui giornali locali, insabbiate dalle autorità competenti. Ma lentamente, il velo di copertura sta scomparendo grazie alla rete, alle sentenze definitive che in questi giorni hanno creato dei precedenti importanti, alla tenacia delle famiglie e alla mobilitazione di parte dell’opinione pubblica. Mediapolitika ha intervistato i due giornalisti, Tommaso Della Longa ed Alessia Lai perché anche un libro può dare un contributo.

 “Quando lo Stato uccide” è un libro difficile da scrivere, non soltanto dal punto di vista emotivo: quali sono state le difficoltà o anche le resistenze che avete incontrato nel corso della scrittura e dopo, con la pubblicazione del libro?

È stato difficile cercare e trovare le storie minori che raccontiamo nel libro. Per i casi più noti, quelli che sono riusciti ad uscire dal silenzio e che la gran parte degli italiani bene o male conosce, c’è molto materiale a cui attingere, comprese le testimonianze dei familiari, già determinati  nello sforzo di portare alla ribalta i casi che li hanno toccati così da vicino e quindi più propensi a parlare, a raccontare. Ma nei casi meno conosciuti, quelli che abbiamo “dissotterrato” scavando nelle cronache locali, spesso ridotti a un trafiletto di poche righe dalle informazioni scarsissime, il lavoro di ricerca è stato molto difficile, proprio per la scarsità di notizie. Siamo riusciti a contattare i parenti o gli avvocati delle vittime per approfondire le storie, in una delle quali le resistenze sono arrivate proprio da alcuni familiari della vittima: è legittimo e comprensibile che alcuni preferiscono il silenzio e una sofferenza “riservata”. Nelle interviste ai sindacati di polizia abbiamo faticato un po’ ad ottenere i colloqui, alcuni non hanno mai risposto alla nostra richiesta, ma tutto sommato chi ci ha parlato è stato sempre corretto e disponibile. Dopo la pubblicazione le uniche resistenze, e sembra assurdo, sono arrivate dagli ambienti della sinistra radicale, che storicamente si è sempre occupata di questi argomenti: il curriculum degli autori non piaceva, e il nostro libro è stato boicottato apertamente.

C’è una storia che avete trattato nel libro che vi ha colpito di più?

Ognuna delle storie che raccontiamo, dalle più note a quelle sconosciute, è una tragedia che ci ha colpiti, perché abbiamo trattato solo di casi nei quali le vittime erano sempre disarmate e non costituivano un pericolo per gli altri, tanto meno per chi le ha uccise. Una delle più dure è però quella di Riccardo Rasman, un ragazzo che lo Stato aveva già mancato di proteggere ai tempi un cui fece il servizio di leva obbligatorio. Allora Riccardo subì gravi atti di nonnismo che gli causarono una patologia psichiatrica. Il giorno che venne ucciso la sua colpa fu quella di avere “disturbato” i vicini dello stabile nel quale viveva, che chiamarono la polizia. Riccardo venne malmenato, gettato pancia a terra e immobilizzato con le manette ai polsi e del filo di ferro a tenergli ferme le caviglie. È morto così. Come se tutto questo non bastasse il magistrato affidò le indagini sulla sua morte agli stessi agenti che erano intervenuti nel suo appartamento. In Italia accade anche questo.

Raccontando le storie dei ragazzi del G8 di Genova, di Gabriele Sandri, di Stefano Cucchi, di Federico Aldrovandi, di Giuseppe Uva e di tante altre vittime degli abusi delle forze dell’ordine, siete riusciti a spiegarvi cosa possa spingere quest’ultime a compiere atti così violenti?

Gli agenti di pubblica sicurezza sono uomini e possono sbagliare. Ma un discorso simile avrebbe più senso se l’ambiente nel quale vengono formati e lavorano fosse integerrimo. Così purtroppo non è: una formazione spesso carente, un malinteso spirito di corpo che porta a pensare di essere al di sopra della legge, portano ad aggravare i casi di abuso, di per sé fisiologici. Perché quando l’apparato di pubblica sicurezza, si prodiga perché non venga fatta luce sugli abusi commessi, e in alcuni casi addirittura insabbiano e falsificano le prove del crimine commesso, allora c’è qualcosa che non va. L’impunità che spesso è riservata a chi, nelle forze dell’ordine, commette gli abusi, diventa purtroppo un lasciapassare per il comportamento scorretto di chi non fa certo onore alla divisa.

Circa una settimana fa, la madre di Federico Aldovrandi, Patrizia Moretti è stata vittima di insulti da parte di Paolo Forlani, uno dei quattro poliziotti condannati in via definitiva per l’omicidio del figlio. In particolare, sulla bacheca del gruppo di Face book Prima difesa, Forlani scriveva: “Sfido chiunque a leggere gli atti e trovare un verbale dove dice che Federico è morto per le lesioni che ha subito”. Conoscendo la storia e avendo letto i verbali, cosa vi sentite di rispondere a Forlani?

Che forse le lenti con le quali lui ha letto i verbali e le perizie sono distorte dalla convinzione che chi indossa la divisa possa massacrare un ragazzo stando sempre e comunque dalla parte della ragione. Sarebbe opportuno un esame di coscienza da parte di questi quattro signori e di chi li considera innocenti: hanno strappato alla famiglia un ragazzo nel pieno della vita, hanno calpestato le leggi e i diritti che loro son chiamati, per primi a tutelare. Forlani e i suoi colleghi dovrebbero fare un gesto dignitoso: togliere la divisa che hanno infangato e disonorato con la loro violenza. Con persone simili in giro per le strade, gli italiani hanno tutte le ragioni di non sentirsi sicuri.

Venendo a conoscenza di queste storie, ad oggi credete che i cittadini abbiano cambiato opinione riguardo alcune condotte delle forze dell’ordine? E le istituzioni?

Da qualche anno a questa parte Internet ha aiutato molto l’opinione pubblica a formarsi una coscienza rispetto a episodi di questo genere. Il solo fatto che un abuso possa essere ripreso da un telefonino e messo in rete, dove poi fa migliaia di contatti, pone le persone di fronte a dati oggettivi che prima potevano scomparire dietro le versioni ufficiali scritte nei verbali di polizia. Di conseguenza anche le istituzioni, la Magistratura in primis, possono essere influenzate, e positivamente, da questa evoluzione. La mediatizzazione di alcuni casi molto noti ha portato e sta portando a sentenze finalmente più equilibrate riguardo agli abusi delle forze dell’ordine. Le recenti condanne in Cassazione degli agenti che hanno ucciso Gabriele Sandri e Federico Aldrovandi, sembrano poter dare la speranza che in futuro questo tipo di abusi possano essere giudicati in modo più corretto. Ci auguriamo, insomma, che siano dei precedenti.

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