Taranto, una città tra due mari e l’industria

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di Pietro Falco

Tra pochi giorni Taranto saprà se il sindaco uscente, Ippazio Stefàno, guiderà ancora la città o meno. La storia recente del capoluogo Jonico è piuttosto travagliata, si è passati dal dissesto economico, ora rientrato, alla presa di coscienza collettiva delle problematiche ambientali legate al polo industriale a ridosso del quartiere Tamburi. Un polo industriale fatto di cementifici, raffinerie e, last but not least, l’impianto siderurgico più grande d’Europa: l’Ilva. All’estensione in ettari dell’acciaieria, fa da contraltare il dato più preoccupante di cui si possa venire a conoscenza: il tasso di malattie tumorali, anche questo il più elevato d’Europa.

La campagna elettorale e l’Ilva – Nell’ultima campagna elettorale la questione Ilva è stata al centro di aspri botta e risposta tra candidati, significativa è stata infatti la candidatura del presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, fermato nella corsa al ballottaggio da un pugno di voti. Bonelli è piombato in città con l’obiettivo della bonifica e chiusura dell’impianto siderurgico, impugnando le armi che ha potuto per accrescere la sua credibilità in territorio tarantino: la richiesta costante di un registro tumori (NdR esiste dal 2006), o le accuse rivolte a Regione e Comune per aver sottoscritto l’Autorizzazione ntegrata ambientale rilasciata dal Ministro Prestigiacomo all’Ilva e che, sempre secondo i Verdi, avrebbe portato ad un incremento della produzione di acciaio a circa 15 milioni di tonnellate l’anno, triplicando quella attuale.

L’Aia e la legge antidiossina – Il capitolo Aia è estremamente controverso, il sindaco Stefàno ha spesso ribadito di non averla mai sottoscritta e la Regione rivendica con orgoglio come sia riuscita ad inserire nel documento i paramentri europei per le emissioni di diossina ed il monitoraggio in continuo dei furani e del benzo(a)pirene. Nel frattempo in Puglia già dal 2008, in una votazione allargata anche ad esponenti di centrodestra, passava la cosiddetta “legge antidiossina”, una legge regionale che impone all’impianto siderurgico l’abbassamento da 10 a 0,4 nanogrammi/m3 delle emissioni di diossina. Questa legge ora è approdata anche in Parlamento dove si sta discutendo per poterla estendere a livello nazionale, vista la sua validità.

A proposito di questa legge però, non son mancate, ancora una volta, le polemiche; rumor cittadini denunciano un sistema di misurazione di queste emissioni poco chiaro, sostenendo la tesi che l’impianto venga allertato ogni qualvolta si sta per procedere ad una di queste misurazioni risultando così sempre nei limiti di legge imposti. Ça va sans dire che un’operazione del genere sarebbe illegale e quindi, se supportata da prove, andrebbe denunciata.

La svolta nel recente passato – I provvedimenti presi nell’ultimo periodo lasciano ben sperare che la direzione stia prendendo una piega diversa in termini di rapporto industria/città: Taranto è approdata finalmente ad un tavolo nazionale, l’amministrazione comunale è riuscita a recuperare l’Ici mai versata dal colosso e, ancora più importante per una Regione da sempre assetata, sono quadruplicate le tariffe che Riva dovrà pagare per utilizzare l’acqua abbassando il prezzo di quella destinata all’agricoltura.

La città e l’industria – All’Ilva, considerando l’indotto, lavorano in circa ventimila (la stessa Cementir è fortemente legata alle sorti del colosso dell’acciaio) e visti questi numeri, incrociandoli con la crisi globale e all’annosa questione della disoccupazione nel Sud, si fa un po’ di fatica a pensare di chiudere l’Ilva. In ballo ci sono due diritti fondamentali: quello alla salute e quello al lavoro, entrambi per decenni calpestati da amministrazioni e privati che con il “ricatto” dell’occupazione hanno voltato le spalle ad ambiente e salute. Un nuovo senso civico pervade gli abitanti di Taranto e sarà quest’onda che chiederà con forza alle prossime giunte di lavorare in maniera illuminata per far sì che queste due realtà convivano al meglio.

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