Caso marò: pillola rossa o pillola blu?

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo:

di Lorenzo Vai

L’incidente conferma quello che per anni non si è voluto ammettere: l’Italia da sola, nell’arena internazionale, conta poco. Svegliarci dai sogni di gloria lavorando per rafforzare una politica estera europea è l’ultima chance per rimanere tra i grandi.

Le nebbie e le incongruenze attorno ai fatti che hanno causato l’incidente diplomatico tra Italia e India sembrano ormai diradarsi. E così l’arresto dei due fucilieri del reggimento San Marco, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, si è mostrato finalmente per quello che è: un braccio di ferro politico dall’esito tuttora incerto. Un incidente perfetto figlio di un nuovo ordine internazionale, con numerosi livelli di lettura e qualche insegnamento.

Dal punto di vista del diritto internazionale la situazione è limpida: l’Italia ha ragione. La presunta uccisione dei pescatori indiani sarebbe infatti avvenuta in acque internazionali (fatto ormai accertato), ed il diritto pattizio in vigore (la Terza Convenzione sul Diritto del Mare delle Nazioni Unite ratificata sia dall’Italia che dall’India) lascia pochi spazi all’interpretazione: la giurisdizione penale a bordo di una nave in acque internazionali spetta esclusivamente allo Stato di bandiera. Gli indiani lo sapevano bene, e attirare con l’inganno la nave italiana nel mare territoriale è stato il primo passo per poterli interrogare e fermare. È dunque chiaro che l’argomento cardine non sia l’immunità di pubblici ufficiali stranieri di fronte al crimine (tesi indiana), bensì la giurisdizione competente.

Detto questo, risulta estremamente interessante la lettura politica della vicenda, non solo per avere l’ennesima prova di quanto i rapporti di forza vizino ancora la pacifica applicazione del diritto internazionale, ma soprattutto per valutare l’attuale ruolo internazionale dell’Italia e capire cosa vorremo fare “da grandi”.

Mentre L’india è ormai avviata a diventare una grande potenza, per crescita economica, demografica e militare, l’Italia continua a restare, da anni, una media potenza con qualche sogno nel cassetto. E così ora anche l’India può permettersi di scaricare interessi di politica interna in affaire internazionali (vedi la Thatcher con le Falkland), dare dimostrazioni della nuova posizione acquisita nell’ordine internazionale (vedi il Brasile con il caso Battisti) o cercare di influenzare l’evoluzione del diritto internazionale (vedi gli Usa con la dottrina Bush). In quest’ottica le accuse all’italianità di Sonia Ghandi, leader del maggior partito indiano, abbinate all’incidenza di numerose elezioni amministrative, hanno pesato non poco sull’inerzia del Governo centrale ad intervenire prontamente per risolvere la faccenda.

Così purtroppo non è stato, anche a causa delle azioni politico-diplomatiche intraprese dall’Italia. Sottovalutare la situazione, per poi sfoggiare tardivamente la voce grossa è infatti servito a poco, se non a peggiorare le cose. Se si esclude la fermezza del sottosegretario agli Esteri de Mistura nell’esigere la presenza di esperti italiani durante i rilievi balistici, e nel difendere lo status speciale che tutela in parte le condizioni carcerarie dei fucilieri, la visita in India del Ministro Terzi ha generato più che altro esternazioni critiche tra membri dell’ex maggioranza. Commenti leciti, ma di dubbia efficacia nel raggiungere una pronta risoluzione della crisi.

Insomma, un brutto risveglio per un’Italia che si scopre piccola tra i nuovi grandi, e sulla quale grava anche l’eredità maturata nella conduzione apicale della politica estera degli ultimi anni. L’ex Capo di Stato Maggiore della Difesa Vincenzo Camporini auspicava giustamente qualche giorno fa, in un’intervista per RepubblicaTV, l’intervento dell’Unione europea per mezzo dell’Alto Rappresentante Catherine Ashton, figura che dovrebbe rappresentare e tutelare gli interessi esterni dell’Ue, tra i quali non può che esserci la corretta applicazione del diritto internazionale. L’Ue dispone non a caso di quel peso economico, e quindi politico, che manca ormai al nostro Paese e che diventa fondamentale quando in un scontro diplomatico è necessario mostrare un po’ di muscoli o usare la giusta leverage. Non dimentichiamo però che l’Ue in politica estera non agisce ancora di sua spontanea iniziativa: necessita piuttosto di decisioni comuni in seno al Consiglio, messe poi in pratica dall’Alto Rappresentante. Una strada percorsa dalla nostra diplomazia con qualche giorno di ritardo, ma che potrebbe dare un aiuto fondamentale alla risoluzione amichevole della disputa nel momento in cui le cose peggiorassero.

Accettare la propria condizione di media potenza e capire, al di fuori della retorica delle dichiarazioni, quanto sia vitale per nostri interessi il processo di integrazione europea sono forse gli insegnamenti che dovremmo trarre da questa vicenda. Insegnamenti che avremmo già dovuto far nostri vivendo in prima persona i tracolli economici alimentati da un “europeismo part-time”. L’Ue è ciò che ne facciamo di lei, e convogliare i nostri sforzi al suo interno per migliorare la sua stessa efficacia all’esterno dovrebbe diventare una nostra priorità. Sia per evitare un nuovo caso come quello dei marò, sia per migliorare il coordinamento delle politiche estere e di sicurezza tra gli Stati europei. Spazi di cooperazione che renderebbero anche meno «inspiegabili», per usare le parole del Presidente Napolitano, le anacronistiche azioni in solitaria, come l’attacco inglese che ha causato la morte dell’ostaggio italiano Franco Lamolinara in Nigeria.

Lorenzo Vai è studente di Scienze Politiche presso la Luiss Guido Carli di Roma e al momento è intern presso l’Ambasciata d’Italia a Washington.

Fonte foto:

http://www.iljournal.it/wp-content/uploads/2012/02/il-ministro-Giulio-Terzi-in-India.jpeg


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