Amarcord, speciale: il Milan di Berlusconi, la squadra più forte del mondo

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Sì, per tutto c’è un inizio e c’è una fine. Il Milan di Berlusconi era già finito nel 2017 quando l’allora presidente rossonero cedette la società che aveva reso grande all’imprenditore cinese Lee Yonghong dopo 31 anni e 29 trofei, dopo che quel Milan era diventato il club più titolato al mondo. La scomparsa di Berlusconi, però, riporta alla mente la costruzione di una società che non avrà probabilmente mai più emulatori ed emulazioni.

Silvio Berlusconi, restando al calcio perché di questo parliamo, è stato un visionario, nel significato migliore del termine, un uomo che si poneva obiettivi che altri neanche sognavano e che, soprattutto, riusciva poi a realizzarli. In fondo, l’imprenditore milanese acquistò il Milan nel 1986 quando la società rossonera era lontana da gloria e successi, scese a Milanello con l’elicottero, prese il microfono e disse: “Voglio portare questo club a vincere in Italia, in Europa e nel mondo“. E giù tutti a ridere, o quasi, perché in Italia c’era la Juventus, c’era il Napoli di Maradona, in Europa c’era il Real Madrid, per il Milan sembrava non esserci spazio. E invece in appena 4 anni i rossoneri portano a casa scudetto, 2 Coppe dei Campioni consecutive, 2 Intercontinentali, 2 Supercoppe Europee ed una Supercoppa Italiana. Berlusconi realizza ciò che aveva promesso, la gente smette di sghignazzare e incomincia a giudicare quel presidente un autentico rivoluzionario, lui non smette di stupire, anzi, alterna acquisti sensazionali a esperimenti sulla carta rischiosissimi.

Del resto, Berlusconi aveva preso Arrigo Sacchi dalla serie B dove allenava un Parma da centro classifica. Se ne era innamorato durante una partita di Coppa Italia che il Milan perse contro gli emiliani: il tecnico dei rossoneri era Nils Liedholm che a suo modo era stato un rivoluzionario, ma che alla fine degli anni ottanta presentava un calcio che il presidente considerava superato, mentre Sacchi giocava in maniera tutta nuova, pressing asfissiante, schemi precisi, ordine tattico e vocazione offensiva. Vuole quell’allenatore, lo chiama, Sacchi stesso gli dà del pazzoide andando contro sé stesso, ma Berlusconi è irremovibile, lo presenta al Milan, calciatori, giornalisti e tifosi non capiscono, la squadra parte male, ma il presidente difende l’allenatore: “Non lo esonero – dice dopo l’eliminazione dalla Coppa Uefa nell’autunno del 1987 – voglio vincere con lui, l’ho scelto, seguitelo“. E il Milan vince tutto quello di cui sopra col tecnico romagnolo che diventa colui che ha cambiato il calcio e che ancora oggi è ricordato come l’allenatore della squadra più forte di tutti i tempi.

Forse addirittura più visionario, Berlusconi è con Fabio Capello, scelto nell’estate del 1991 dopo l’addio di Sacchi: Capello è un ex calciatore famoso, ha giocato proprio col Milan, con la Roma, con la Juventus, con la Nazionale, ma l’allenatore l’ha fatto per poco nel settore giovanile rossonero, ha sostituito Liedholm nella primavera del 1987 vincendo lo spareggio Uefa con la Sampdoria, poi si è chiuso a studiare per diventare manager, a proseguire la carriera in panchina non ci pensa. Berlusconi, però, intravede in lui le stimmate del leader assoluto, di un sergente di ferro capace di guidare un organico che il presidente vuole costruire, un organico da sogno, fatto di 24-25 calciatori in un’epoca in cui a stento le società arrivavano a 20. Capello accetta, il Milan cambia pelle in campo, Berlusconi acquista tutto quello che può, talvolta solo per togliere giocatori alla concorrenza, talvolta si presenta dalla dirigenza con la lista dei candidati al Pallone d’Oro e dice: “I primi 7 li abbiamo già, prendete dall’ottavo in poi“. Arrivano così Savicevic, Papin, Lentini, il Milan vince e rivince, Capello è maestro nel gestire lo spogliatoio, cala lo spettacolo ma non i successi: 4 scudetti in 5 anni, 3 consecutivi, un’altra vagonata di Supercoppe ed un’altra Coppa dei Campioni, oltre a due finali perse.

E proprio il raffronto tra due finali spiega meglio la mentalità vincente di Silvio Berlusconi: nel 1994 un Milan senza Baresi e Costacurta demolisce ad Atene il favoritissimo Barcellona di Cruyff, sepolto da 4 reti dei rossoneri. Il presidente è raggiante, ma dice: “La bellezza di questa vittoria non è gustosa come è stato brutto il dolore per la finale persa a Monaco di Baviera contro il Marsiglia l’anno scorso“. Vincere e vincere ancora. Il Milan saluta Capello e abbraccia Zaccheroni che vince lo scudetto all’esordio ma ha screzi continui con Berlusconi che nel 2001 fa la scelta del cuore esonerando il turco Terim (un altro con cui andava poco d’accordo) e chiamando Carlo Ancelotti che sta per firmare col Parma ma che viene bloccato per strada da Adriano Galliani che lo convince a deviare verso Milano e a legarsi al Milan dopo gli anni da calciatore. Ancelotti è forse il tecnico che meglio lega con Berlusconi: il presidente irrompe nelle scelte di formazione, l’allenatore è sornione, gli dà ragione, dice sì e poi fa come vuole. Però vince: è sua la firma sulla Coppa dei Campioni di Manchester contro la Juventus, è sua una gestione dello spogliatoio da papà che tiene unito un gruppo di campioni straordinario.

Il Milan vince lo scudetto nel 2004, un anno dopo aver rivinto anche la Coppa Italia dopo 26 anni di attesa, peraltro l’ultima nella storia milanista. L’ultimo Milan che domina l’Europa perde clamorosamente la finale di Istanbul contro il Liverpool nel 2005, ma vince quella di Atene due anni dopo sempre contro gli inglesi; Berlusconi è in tribuna, accanto a lui Galliani si agita, sbraccia, è stravolto come al solito, mentre il presidente sorride compiaciuto, non si sa se a farlo ridere sia la vittoria del Milan o le facce dell’amministratore delegato. Silvio Berlusconi si fa più anziano, spesso i figli gli consigliano di vendere il Milan o quantomeno di star più lontano, la politica, le vicende giudiziarie, tutto sembra allontanare il patron dai rossoneri, ma il cuore è lì, lui va meno allo stadio ma non smette di sorprendere: nel 2010 sceglie Massimiliano Allegri che molti dicono sia comunista, ma assieme al tecnico livornese arriva pure Zlatan Ibrahimovic, l’ultima perla milanista del Cavaliere: lo svedese viene e vince lo scudetto, resterà per sempre legato ai rossoneri, anche quando Berlusconi lo cede al Paris Saint Germain, ai nuovi Berlusconi, quelli d’oriente, quelli del nuovo mondo e del nuovo calcio.

L’ultima avventura calcistica è il Monza, è una vittoria anche quella: promozioni in C, in B e quella serie A conquistata per la prima volta dai brianzoli in 110 anni di storia. Ma Berlusconi nella sua ultima intervista a marzo ammette: “Sono felice quando il Monza vince, ma non è ancora nel mio cuore, là c’è sempre il Milan“. Già, il Milan: 8 scudetti, 5 Coppe Campioni….bla bla bla, i numeri sono noti, li sciorinava anche lui ghignando e beandosi di essere stato il presidente più vincente della storia del calcio con 29 trofei in 31 anni di presidenza, con una squadra presa in difficoltà ed elevata fino a diventare la più titolata al mondo. C’è stato un momento, fra il 1992 ed il 1996, in cui il Milan comprava tutti, come oggi fanno Paris Saint Germain e Manchester City, come nei primi anni duemila faceva il Real Madrid: chi è candidato al Pallone d’Oro, George Weah? Eccolo in rossonero. Roberto Baggio è in rotta con la Juventus? Eccolo in rossonero. Brian Laudrup può diventare più forte del fratello ed interessa a mezza Europa? Eccolo in rossonero. Molti si annoiavano a veder vincere sempre e solo il Milan, ma i milanisti non si annoiavano per niente, anzi, si divertivano quando la loro squadra stabiliva il record (tuttora imbattuto) di 58 gare consecutive senza sconfitte.

Su Silvio Berlusconi la si può pensare in qualsiasi modo: al di là dell’uomo, del politico, al di là delle polemiche e delle controversie, il presidente di calcio ha costruito qualcosa di unico, non soltanto la squadra più forte di tutti i tempi, ma una mentalità che è servita di insegnamento anche ad altri. La morte di Berlusconi ha chiuso un’epoca in diversi ambiti, i nostalgici del calcio, comunque la pensino, perdono quel presidente che ha tirato una linea fra il pallone classico degli anni settanta e la rivoluzione degli anni novanta. E’ la storia irripetibile di un presidente e di una squadra che non ci saranno più ma che resteranno unici e indissolubili nella leggenda.

di Marco Milan

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