Amarcord: Maurizio Montesi, il sovversivo del calcio

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Questa è una storia di disobbedienza, figlia forse di un contesto (quello degli anni settanta) in cui protestare, contestare e provare a rovesciare i sistemi era all’ordine del giorno e quasi uno stile di vita. Eppure, la storia che raccontiamo avvolge (o è avvolta, fate voi) il mondo del pallone, solitamente avulso dai contesti sociali e dalle ribellioni presenti all’esterno. Questa è la controversa storia di Maurizio Montesi.

Maurizio Montesi nasce a Roma il 26 luglio 1957 e qualcuno dice che sia diventato calciatore per caso, dato che di doti tecniche ne aveva poche e voglia di seguir le regole ancora meno. Aveva costanza, però, amore per il sacrificio e grinta da vendere, caratteristiche che di solito nel calcio portano qualche vantaggio, perché alla fine, vuoi o non vuoi, un bel medianaccio grintoso serve sempre, anzi, spesso diventa l’uomo chiave delle squadre. Montesi cresce nel settore giovanile della Lazio, proprio negli anni che porteranno i biancocelesti allo storico e per certi versi inatteso scudetto del 1974, quello di Pulici, di capitan Wilson, di Chinaglia e Re Cecconi, ma soprattutto del “maestro” Tommaso Maestrelli, papà acquisito ed allenatore di un gruppo unico e a tratti controverso. Che lo spogliatoio di quella Lazio fosse a dir poco turbolento non è certo un mistero, così come che fosse diviso in clan che si facevano la guerra fuori dal campo, ma che durante le partite diventavano un’armata unita che guai a toccarne uno senza vedersi venir contro a muso duro tutti gli altri.

Montesi cresce in questo gruppo che non ama e che è troppo diverso da lui, ragazzo proletario che ama poco i lussi, le mode e l’aria da divi che si danno spesso i calciatori. “Ecco il comunista“, gli urla qualcuno quando lo vede arrivare agli allenamenti, lui trasandato, baffi e capelli lunghi, camicie a quadri sui jeans, gli altri curati e pettinati, giacche firmate e scarpe lucide all’ultima moda. A lui i compagni non piacciono, anche se definirli compagni lo manderebbe ancor oggi su tutte le furie, perché Montesi (altamente conformista) ha sempre sostenuto nel tempo che all’interno dello spogliatoio laziale fossero tutti di destra e chi non la pensava così veniva emarginato dal gruppo. Dal sistema. Ecco, la parola sistema inizia a serpeggiare in quel centrocampista dai piedi rozzi ma dai polmoni grandi e dal carattere invincibile: un giorno lo riprendono per qualcosa non fatta nel verso giusto, lui chiede conto e si sente rispondere “l’ha deciso Pino Wilson“. A Montesi non va giù che lì in mezzo o si fa come vuole il capitano o non si fa.

Tutto ciò, Montesi lo racconterà dopo, quando ormai ha appeso gli scarpini al chiodo a neanche 30 anni. Fatto sta che la Lazio, ancor prima di farlo debuttare in prima squadra, lo cede in prestito in serie B all’Avellino nel 1977. In Irpinia, il centrocampista romano si distingue per le sue doti di gran lottatore in campo, ma anche per la sua dichiarata fede politica tutta rivolta a sinistra e per nulla celata, come dimostrano svariate interviste rilasciate senza peli sulla lingua a giornali come Lotta Continua a cui dichiara che lui è vicino al popolo, che odia lo status di divo e che quando i tifosi gli chiedono foto ed autografi lui risponde di andare a studiare e di aiutare chi è in difficoltà, facendo pure riferimento alle difficili condizioni sociali dell’Irpinia di fine anni settanta. Ad Avellino qualcosa inizia a trapelare, anche se il tecnico biancoverde Carosi difende il calciatore definendolo punto fermo della squadra e ragazzo che non dà alcun problema. L’Avellino, inoltre, conquista la sua prima storica promozione in serie A, Montesi è uno dei protagonisti (e lo sarà anche nell’esordio della compagine campana in massima serie) ed ogni vagito di polemica viene strozzato sul nascere.

Ma Avellino non è una metropoli e qualcosa continua a circolare nei bar e nei circoli: Montesi non partecipa alle cene sociali della squadra e si rifiuta persino di indossare la tuta ufficiale del club. Con l’Avellino in serie A, alla fine scoppia la bomba: sempre a Lotta Continua, infatti, il calciatore romano se la prende con la società, dice che i presidenti sono ostaggio dei capi ultras, pagano loro cene e biglietti delle partite, poi se la prende con la classe politica, la accusa di non prendere posizione sull’argomento per non perdere le migliaia di voti dei tifosi, infine ne ha pure per i compagni di squadra, definiti degli stronzi senza morale. E quando gli chiedono cosa ci faccia ancora in un mondo simile, lui risponde che non lo sa ma che si sente solo e non capito da nessuno. Da Avellino, in pratica, lo cacciano o forse si fa cacciare lui, costretto a tornare a Roma dove per qualche mese dorme nella casa di famiglia, prima di essere nuovamente accolto dalla Lazio che finalmente lo fa debuttare in prima squadra. L’allenatore Roberto Lovati prova a capirlo, lo tratta come un figlio, lo invita ad aprirsi, a protestare se vuole, ma mantenendo sempre il rispetto nei confronti degli altri. Montesi sembra vivere una nuova esistenza, diventa amico di Bruno Giordano che se lo porta fuori Roma a mangiare e lo protegge da qualche attacco gratuito di chi lo vede come un rompi scatole e poco altro.

Nella stagione 1979-90 Montesi gioca con la Lazio ed inizia a raccogliere consensi anche dai tifosi, da quel pubblico che lo aveva già bollato come strano. A febbraio, però, in un duro contrasto con un avversario durante Lazio-Cagliari, il calciatore biancoceleste si infortuna gravemente riportando la doppia frattura di tibia e perone. Sono ancora gli anni in cui per un guaio simile si può star fermi per tutta la stagione. E’ passato solo un mese dal dannato Milan-Lazio del 6 gennaio 1980 che diventerà la partita chiave dello scandalo scommesse: Montesi sa dell’accordo, ma ne rifiuta l’idea, così si fa sostituire a pochi minuti dall’inizio della partita inventandosi un acciacco fisico quando ormai l’arbitro ha già in mano la distinta con le formazioni. Mesi dopo gli rinfacceranno di aver taciuto (si beccherà anche 4 mesi di squalifica per omessa denuncia) per non mettere in difficoltà l’amico Giordano, anche perché al processo se la prende quasi esclusivamente con Wilson; lui non risponde, la verità non la sapremo mai. Il mondo laziale ormai non lo sopporta più, a Roma compare anche qualche scritta del tipo “Montesi infame“, anche se in realtà la città è abbastanza divisa e in molti apprezzano più la sua umiltà e la sua morale rispetto a quegli idoli che si erano venduti le partite.

Montesi fatica a recuperare fisicamente, salta l’intera stagione 1980-81 (squalifica inclusa), la Lazio nel frattempo è stata sbattuta in serie B a causa del Totonero ed ha tanti problemi da risolvere, in campo e fuori. Quando Maurizio Montesi si ristabilisce dall’infortunio è ormai il 1982, il centrocampista gioca una decina di partite e sembra poter far ripartire la sua carriera. Un anno dopo, però, a febbario del 1983, a tre anni esatti dal primo infortunio, si fa male ancora nella gara contro la Sambenedettese nella quale rimedia un’altra frattura alla tibia, la stessa già operata e malandata. Stavolta è troppo, i medici glielo dicono chiaramente, pensare di tornare a giocare a calcio è impossibile, possono soltanto garantirgli il pieno recupero della funzionalità della gamba. Montesi dice addio al calcio a soli 26 anni, addio a quel mondo che, in fondo, non ha mai neanche completamente amato e che anzi lo ha quasi subito bollato come diverso. Calcio che lo ripudia, i pochi amici che aveva nell’ambiente smettono di cercarlo, alcuni nemmeno gli rispondono al telefono, i più “coraggiosi” gli dicono chiaramente di non farsi più vedere o sentire, lui afferma di aver pure smesso di guardare le partite e di leggere i quotidiani sportivi che del resto già definiva carta straccia quando giocava.

Le cronache torneranno ad occuparsi di Montesi quando nel 1984 viene arrestato in Inghilterra per detenzione di sostanze stupefacenti e poi ancora nel 1992 quando viene condannato a 4 anni di carcere per traffico di droga. Da allora nessuno ha mai più saputo niente di lui, anche se qualche voce (mai confermata ufficialmente) lo vorrebbe residente all’estero. Maurizio Montesi è stato considerato il rivoluzionario del calcio, anche se lui ha sempre odiato tale definizione, ritenendosi semplicemente uno che agiva di istinto e anima, esattamente come faceva in campo. Rigido e mai morbido, come quando voleva tornarsene a casa il giorno del derby in cui sugli spalti fu ucciso Vincenzo Paparelli (28 ottobre 1979) e venne invece costretto dai compagni di squadra a scendere ugualmente in campo.

Forse buono, forse contestatore a prescindere, figlio di un’epoca che lo ha divorato e risputato, ma probabilmente più sincero di tanti suoi colleghi perché non ha mai indossato maschere, non ha mai illuso nessuno, non ha mai preso in giro chi, ignaro, lo aveva eletto a idolo. Il più anarchico e sovversivo dei calciatori, colui che proprio quella parola “idolo” voleva staccarsela di dosso e che invece, forse, per molti idolo lo è rimasto, perché umile e peccatore come tutti. Come uno normale.

di Marco Milan

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