Picturebook Fest, intervista all’illustratrice Alicia Baladan

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L’immagine che racconta. Non solo parole. Alla scoperta del mondo dei libri illustrati

L’abbiamo incontrata durante il Picturebook Fest, il Festival dell’arte e della letteratura per ragazzi in corso a Lecce fino al 29 gennaio . Vi partecipa in qualità di illustratrice. Ha origini uruguayane, ma vive in Italia da 37 anni. Il suo nome è Alicia Baladan.
Nel 2012 è stata selezionata alla Biennale dell’illustrazione del Portogallo. Ha vinto il premio “Miglior illustratore” al VI Festival dell’illustrazione di Pavia, nel 2013, mentre l’anno successivo ha ricevuto il medesimo riconoscimento alla Rassegna internazionale del Museo Diocesano di Padova. Collabora come docente con la Scuola Internazionale di Illustrazione Ars in Fabula di Macerata.

Alicia, come sei diventata illustratrice?
È una storia un po’ curiosa. In realtà sono sempre stata vicina al mondo dell’arte perché ho frequentato prima l’Istituto d’arte e poi l’Accademia. Volevo diventare un’artista, ma non immaginavo che il mondo dell’illustrazione mi avrebbe affascinata così tanto. Il mio lavoro da artista era molto narrativo, per cui veniva anche un po’ criticato nell’ambiente dell’arte contemporanea, mi dicevano, appunto, che ero troppo narrativa. Così ho cominciato a chiedermi se fossi nel posto giusto. Non lo ero.
All’illustrazione sono arrivata quasi per caso, anche se l’interesse già c’era: a guardare la mia libreria si contavano molti più libri illustrati che cataloghi d’arte. Poi ho iniziato ad andare alla Fiera del Libro e mi sono accorta pian piano che quel mondo evidentemente faceva più per me. Ancor prima di pensare che mi sarebbe piaciuto pubblicare un albo illustrato mi ha cercato un editore, così è uscito “Una storia Guaranì” e da lì è partito tutto.

Quali caratteristiche deve avere un buon libro illustrato?
Tra le molte, cercherò di dirne una. Un libro mi deve incuriosire, deve portarmi a girare le pagine per vedere come va a finire la storia. Ecco, una delle caratteristiche è riuscire a suscitare questa curiosità entusiasmante.

Da bambina avevi un libro illustrato preferito?
No, perché sono cresciuta in piena dittatura militare e in casa non ce n’erano. Avevamo parecchi libri perché i miei leggevano molto, però non ricordo di aver visto albi illustrati. A un certo punto hanno regalato a mia sorella Il Piccolo Principe e da allora la mia vita, la mia percezione delle cose è cambiata, infatti ho un affetto particolare per quel libro. L’immagine del boa che mangia l’elefante e che sembra un cappello è proprio la sintesi del fatto che non tutto ciò che appare è come sembra. È anche quello che io provo a fare nelle mie illustrazioni, ovvero evitare di essere didascalica e cercare piuttosto lo stupore. Un’altra cosa meravigliosa di quel libro è l’aviatore che disegna la pecora dentro la scatola. Ecco, per me quello è il “la”, il motivo per cui faccio questo lavoro.

Attraverso quali scelte e quali fasi si arriva a illustrare la parola?
Per quanto mi riguarda, la scelta di illustrare un libro è il libro stesso: mi deve piacere, lo devo sentire. Il massimo è lavorare a qualcosa che ti piace, allora anche se trovi un testo che può sembrare difficile, lo fai perché per te è importante.
Le fasi non sono sempre le stesse. Ad esempio mi capita di leggere un testo che mi coinvolge, mi esplode la testa di immagini e le butto giù. Poi le abbandono, oppure le riprendo se penso che c’è qualcosa di buono. Sicuramente la prima cosa, almeno per me, è quella di “sentire” il testo: sentire che colore ha, che musica ha, che tipo di testo è, come lo voglio illustrare. Personalmente mi annoia un po’ l’idea di disegnare e basta. Amo invece pensare che, partendo sempre dal testo, non necessariamente devo disegnarlo come sono abituata a fare, ma forse, a volte, devo un po’ stravolgere il mio modo di disegnare perché quel racconto lì mi dice che devo prendere un’altra strada.
Quando sto illustrando una storia, poi, ci sono dentro a 360 gradi, nel senso che persino quando cucino o guido cerco, anche istintivamente, degli input.

Con quali limiti ci si deve confrontare?
Di limiti ce ne sono tantissimi, però ritengo che non sia un difetto, tutt’altro: è una sorta di gioco. Dal momento in cui ho dei limiti, ho bisogno di far uso dell’astuzia per trovare la soluzione migliore entro quei confini. È un qualcosa di molto simile al progettare.

Secondo te qual è, se c’è, il valore aggiunto che l’immagine può dare alla parola?
Sono due linguaggi diversi, ciascuno con la propria potenza e l’uno può stare insieme all’altro arricchendosi a vicenda. Certo, non ha senso un libro illustrato che dica la stessa cosa in due linguaggi diversi. Ci sono libri bellissimi che non hanno assolutamente bisogno di immagini, sono libri che a disegnarli li rovini, perché hanno una parola talmente perfetta che non c’è bisogno di altro. Viceversa, esistono libri di sole illustrazioni dove aggiungere il testo, per quanto geniale possa essere, non serve.

Che tecniche prediligi nelle tue illustrazioni?
Ammiro moltissimo gli illustratori che usano il collage, oppure che hanno un tratto molto forte. Per esempio adoro Simone Rea, che utilizza l’acrilico, ma per quanto mi riguarda finisco sempre con l’avere un tratto sottile e con l’adoperare colori di acqua, piuttosto che materici. Non so dirti la mia tecnica, sicuramente mi piace cambiare. Tendo a dare dei tratti molto fini, per cui uso china, acquarelli, pastelli e ultimamente il pantone sulla carta opaca, che non è la carta adatta. Assomiglia a un acquarello compatto e mi piace molto.

(di Laura Guadalupi)

Immagine di Alicia Baladan, fonte: http://cargocollective.com/aliciabaladan/Storia-piccola

 

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