Strage di Orlando: lacrime, cordoglio e tanti interrogativi
A poco più di una settimana dalla strage di Orlando, emergono i retroscena della vita del killer Omar Mateen, mentre gli Stati Uniti si interrogano se la colpa sia da imputare al fondamentalismo islamico, all’omofobia o a una troppo permissiva legislazione sulle armi
Quarantanove morti, cinquantatré feriti e la paura per gli Stati Uniti di dover fare nuovamente i conti con il terrorismo islamico o, peggio ancora, con se stessi. Questo è il tragico bilancio della strage del Pulse di Orlando, dove domenica 12 giugno Omar Mateen ha sparato sulla folla per motivi non ancora del tutto chiari, uccidendo decine di persone prima di essere a sua volta ucciso dalla polizia. Perché di fatto, nonostante le rivendicazioni dell’ISIS, nonostante i collegamenti del giovane americano di origine afgana con il movimento talebano (suo padre era simpatizzante del regime di Kabul), sono molte le incongruenze emerse dalle prime indagini.
Certo è che, fin dai primi giorni, il padre del killer di Orlando ha voluto allontanare l’ipotesi della pista terroristica, cercando di mettere in luce la personalità contorta, probabilmente bipolare, del figlio e la sua intransigenza nei confronti degli ambienti gay e del mondo omosessuale. In questo senso va interpretata la dichiarazione rilasciata dall’uomo, secondo cui il figlio sarebbe rimasto seriamente turbato dal vedere due uomini baciarsi. Ciò avrebbe scatenato in Omar Mateen un odio profondo, sfociato nel tragico epilogo del 12 giugno scorso.
Dalle dichiarazioni raccolte dall’FBI è stato accertato che il ventinovenne Mateen frequentava il Pulse da oltre tre anni. Un periodo lungo anche volendo ipotizzare che l’azione fosse parte di un piano terroristico più ampio. Tuttavia i primi a smentire queste indiscrezioni sono stati proprio i titolari del locale, che hanno negato di aver visto il ragazzo in passato. Nonostante questa pronta smentita, a supporto della tesi che vorrebbe Mateen assiduo frequentatore degli ambienti gay, ci sarebbe un ulteriore dato: il giovane era iscritto ad alcuni siti di incontri, attraverso i quali avrebbe conosciuto diversi ragazzi.
Altro aspetto abbastanza oscuro di questa tragedia continua a essere il ruolo dalla seconda moglie di Omar Mateen, Noor Zahi Salman, che avrebbe cercato di dissuadere il marito dal compiere la strage. In un primo tempo si era pensato che i due si fossero lasciati, ma successivamente è stato chiarito che la coppia stava ancora insieme al momento della strage e che la moglie del killer si era semplicemente recata fuori città con la figlia. Nel corso degli interrogatori, la donna avrebbe confessato di essere a conoscenza del folle piano del marito e di avere cercato in ogni modo di farlo desistere dal metterlo in atto. Noor Salman avrebbe anche escluso in modo categorico che il marito fosse omosessuale o fosse attratto dall’ambiente gay.
Nonostante siano molte le prove a sostegno del movente omofobo, o quanto meno ad avvalorare la possibilità che Mateen abbia voluto scaricare su delle vittime innocenti la sua frustrazione di gay non dichiarato e impossibilitato a farlo, al momento non viene esclusa nessuna altra pista. Prima fra tutte quella legata al fondamentalismo religioso e al terrorismo. Il killer era un fervente musulmano, che era stato segnalato e interrogato due volte dalla polizia, nel 2013 e nel 2014, ma in entrambi i casi i procedimenti erano stati archiviati per insufficienza di prove. Nonostante questi precedenti, Omar Mateen è riuscito a entrare in possesso di un fucile con il quale ha potuto compiere un vero e proprio massacro, prontamente rivendicato dall’ISIS, forse in modo del tutto opportunistico.
A parte tutte le elucubrazioni mentali e investigative sui motivi che possono aver spinto Omar Mateen a compiere un atto tanto efferato, quello che rimane dopo una settimana di indagini e speculazioni incrociate è l’amarezza per una tragedia terribile e insensata che ci obbliga tutti a interrogarci sulla società in cui viviamo. Soprattutto questo dramma impone agli Stati Uniti di fare una profonda riflessione su se stessi, su materie quali l’omofobia, il terrorismo e la facilità con cui è possibile reperire armi nel Paese. E ancora ci restano i messaggi del giovani Eddie Justice, che dal bagno del Pulse ha scritto alla madre subito prima di morire, per dirle quanto le voleva bene. Ciò che mai potrà essere dimenticato è il cordoglio dimostrato da star internazionali, da politici di diversi schieramenti, primo fra tutti il Presidente Obama, e dalla gente comune che attraverso veglie, messaggi e iniziative di vario genere ha voluto dimostrare la propria vicinanza. E poi restano quelle quarantanove vittime brutalmente uccise, quei cinquantatré feriti che hanno visto la morte in faccia e tutti quei giovani che si sono salvati per miracolo, ma che certo mai potranno dimenticare quella lunga notte del 12 giugno, quando la paura è entrata definitivamente a far parte delle loro vite.
(di Christopher Rovetti)