Intervista a Radio Città Aperta. Il giornalismo contro la mafia e gli italiani “splendidi equilibristi”

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Ed eccoci a “Melampo notturno”, ore 23 e 29. Do il benvenuto a Vincenzo Arena. Grazie per la tua disponibilità Vincenzo.

Grazie a voi per avermi chiamato e per permettermi di parlare di temi così delicati e importanti come quelli riguardanti il giornalismo in terre di mafia.

Iniziamo proprio dal tuo libro. Il titolo dice tutto: “L’informazione è cosa nostra”. Un libro che è una pietra nel muro dei libri che parlano dell’argomento mafia. In particolare, il libro mette in luce quello il rapporto tra la professione del giornalista e le mafie e approfondisce, anche, le pressioni che forse, a volte, non provengono proprio dalle organizzazioni criminali, ma comunque un qualche cosa di intimidatorio hanno…

È un libro che cerca di indagare il rapporto fra mafie e informazione, ma in particolare cerca di indagare una certa mentalità mafiosa che non è necessariamente individuabile in atti criminali veri e propri ma che condiziona l’informazione. Una mentalità che possiamo anche ritrovare nel comportamento di tanti editori sui nostri territori, di tanti rappresentanti delle istituzioni, purtroppo, che hanno nei confronti della stampa molto spesso un atteggiamento intimidatorio. Le intimidazioni poi possono prendere diverse forme: dalle forme delle minacce in pubblico a quelle delle querele pretestuose.

Nel film che racconta la vita di Siani, c’è una scena in cui il suo caporedattore lo mette di fronte ad una scelta: devi decidere se vuoi essere giornalista o giornalista, scandendo bene con un’intonazione più marcata la seconda parola. In una domanda così c’è tutto, vero?

Più precisamente il caporedattore mette Giancarlo di fronte alla scelta fra l’essere giornalista impiegato e giornalista giornalista. Siani, nel film, dice: “voglio essere giornalista giornalista anche se è difficile esserlo”. Ed è difficile esserlo nei territori della nostra provincia, per quei giornalisti come Siani, e altri prima di lui, che per poche lire o euro al pezzo hanno cercato e cercano, comunque, di approfondire determinate vicende, di raccontare la verità, di svelare gli intrecci tra mafia, politica e imprenditoria deviata. Ecco parlo di giornalisti giornalisti in questo libro anche dando qualche numero, grazie all’apporto dei monitoraggi sul fenomeno dei giornalisti minacciati e sotto scorta di Ossigeno per l’informazione.

Quali sono i casi di cui in particolare ti occupi nel libro? Poi vorrei estendere il discorso non solo a chi le pressioni le fa, ma anche a chi le pressioni le riceve o decide di non riceverle.

Ho indagato in maniera più approfondita il caso siciliano. Con un libro precedente a questo ho raccontato la storia degli otto giornalisti ammazzati da cosa nostra in Sicilia dagli anni ‘60 in poi; con L’informazione e Cosa Nostra ho voluto invece approfondire cosa accade oggi in Sicilia in particolare in province come Catania, Caltanissetta, Palermo, Trapani, a quei giornalisti che in provincia appunto tentano di fare il proprio dovere di raccontare gli intrecci fra mafie e territori. In particolare, ho avuto la possibilità di intervistare Pino Maniaci che mi ha raccontato la sua esperienza a Partinico: ha fatto nascere Telejato, una televisione che all’ora di pranzo fa degli ascolti che nemmeno alcune tv a livello nazionale fanno. Con le loro denunce i giornalisti di Telejato hanno cercato di svelare intrecci fra mafia e imprenditoria, hanno fatto chiudere una distilleria che sversava vinacce a mare impunemente, poi hanno sensibilizzato il territorio sui temi della legalità e questa sensibilizzazione ha portato tantissimi imprenditori e commercianti ad aderire ad “Addio Pizzo” e a denunciare il racket sul territorio di Partinico.

Altri casi di specie di cui ti sei occupato nel libro?

Ho approfondito la vicenda di Giacomo Di Girolamo, un giornalista di Marsala. Il suo è un caso singolare: anche lui con la sua Radio Marsala Centrale e con il suo periodico online, cerca di raccontare, a volte senza peli sulla lingua, la penetrazione delle mafie sui territori. A Giacomo Di Girolamo è successa una cosa singolare: ha toccato i rapporti fra mafia e politica, ha denunciato sui suoi mezzi d’informazione certi rapporti di contiguità e ha ricevuto una querela che ha dell’assurdo: è stato querelato per l’intera attività giornalistica dall’ex sindaco del comune di Marsala proprio perché, con una serie di articoli e di inchieste, aveva cercato di approfondire gli intrecci tra politica locale e mafia. Una querela per l’intera produzione giornalistica, al di fuori di qualsiasi presupposto giuridico; Di Girolamo è stato querelato non per un articolo, non per un caso di specie, ma addirittura per l’intera produzione giornalistica rispetto alle vicende che vedevano coinvolto il sindaco di Marsala.

Ti chiederei, prima di tutto, una autocritica da giornalista rispetto a quei colleghi che si piegano al compromesso, oppure se ne sentono immuni, abbassando di conseguenza anche il livello di qualità dell’informazione offerta. E in seconda battuta, cosa pensi di quei giornalisti che passando dalle testate locali a quelle nazionali perdono la loro forza propulsiva anche rispetto alle notizie di mafia?

Sono estremamente critico nei confronti della mia categoria e dico che uno dei peccati capitali dal giornalismo italiano è il suo estremo parallelismo con il mondo politico, che lo porta a volte a mettere il silenziatore per tutelare una serie di interessi particolari. Purtroppo, ciò accade per una serie di motivi. Fare questo mestiere molto spesso è proibitivo e allora si accettano compromessi estremi per poter campare; non giustifico una scelta di questo tipo ma cerco di analizzarla. Un altro motivo che determina l’autocensura è l’assenza nel panorama italiano di editori puri. All’estero, invece, il giornalista watchdog ha un ruolo importante perché ci sono editori che ne garantiscono libertà e indipendenza. I grossi gruppi editoriali del nostro Paese sono finanziati da vari crogiuoli di interessi economico-politici e, quindi, anche determinati giornalisti che potrebbero avere tutte le carte in regola per fare delle belle inchieste rinunciano a farlo perché devono tenere un certo equilibrio. Il giornalista italiano è uno “splendido equilibrista”. Poi ci sono i conflitti di interesse su scala più piccola: a livello locale ci sono i conflitti d’interesse determinati da situazioni in cui gruppi editoriali sono finanziati o viziati da certi imprenditori e certa politica; quindi bisogna dire sempre le cose stando sul filo del rasoio. In definitiva: aumentano i cosiddetti cani da compagnia e diminuiscono quelli da guardia.

Parlando di giornalismo locale, ci sono situazioni tipiche come quelle in cui i giornalisti soccombono ai diktat redazionali del sindaco o della maggioranza, o si limitano a pubblicare comunicati stampa senza fare approfondimento. La reazione dovrebbe arrivare dall’istituzione, che dovrebbe garantire un’informazione maggiormente pluralista, o da chi esercita il mestiere che dovrebbe dire no al meccanismo clientelare?

Introduco un altro attore alla tua domanda, ossia il cittadino, il lettore che potrebbe essere davvero la svolta in questa dinamica, sia a livello nazionale sia locale. I lettori ormai cercano una notizia da consumare velocemente, senza un vero livello di approfondimento. Probabilmente se anche noi cittadini cambiassimo profondamente l’aspettativa nei confronti dell’informazione, comprassimo quei giornali che garantiscono un certo tipo di informazione, pretendessimo dai nostri cronisti locali un certo tipo di approccio nei confronti dei fatti e della notizia, ecco allora le cose potrebbero cambiare.
C’è Alberto Spampinato, direttore di Ossigeno per l’informazione, che proprio sul tema della sopravvivenza della stampa, in particolare della cartacea a livello locale, fa una proposta interessante: dal momento che il limite più grosso per chi vuole fare giornalismo sui territori è rappresentato dai costi di stampa e distribuzione, allora potrebbero essere le istituzioni a promuovere strutture consortili su scala regionale. Poi c’è tutto il mondo del web: negli ultimi anni è stato approvato un regolamento che disciplina solo per i quotidiani on line il meccanismo del finanziamento pubblico. Un’altra proposta di Spampinato è di ricondurre il finanziamento a un positivo incanalamento: premiamo quei giornali che fanno giornalismo online antimafia, quei giornali che con pochissime risorse tentano di fare informazione sui territori. Ecco due proposte concrete che hanno sicuramente bisogno di una sponda istituzionale forte.

La recente relazione della Commissione antimafia relativa all’informazione fa emergere l’assenza di tutela rispetto a quei “giornalisti a 5 euro al pezzo”, come li chiama Giovanni Tizian, che parlando di mafia rischiano la vita per articoli che non rientrano neanche nel tariffario che l’Ordine dovrebbe imporre.

I giornalisti, soprattutto quelli di provincia, hanno sponde istituzionali davvero deboli. Gli ordini professionali si sono purtroppo trasformati in corporazioni che pensano soltanto a se stesse e non tutelano veramente i propri iscritti. La stessa cosa succede per quanto riguarda il sindacato: avrebbe dovuto difendere i diritti dei suoi iscritti, ma l’ha fatto debolmente… quando l’ha fatto! A questi temi si aggiunge quello delle minacce ai cronisti: negli ultimi otto anni Ossigeno ha censito quasi 3.000 casi di giornalisti minacciati. Gli argomenti citati, dalle tutele che mancano alle minacce e intimidazioni, sono stati approfonditi in due Relazioni della Commissione bicamerale antimafia sia nel 2013 sia nel 2015. In entrambe le occasioni, la Commissione ha ascoltato i rappresentanti nazionali dell’Ordine dei giornalisti, oltre che il presidente di Ossigeno Alberto Spampinato. Sono intervenuti in audizione anche alcuni giornalisti minacciati. Un nome per tutti: Lirio Abbate; ascoltato già nel 2013 e ritornato agli orrori della cronaca per le nuove minacce di morte ricevute in seguito alle sue inchieste su mafia capitale, la mafia a casa nostra, insomma. Entrambe le Relazioni hanno sottolineato come la tutela da parte delle istituzioni debba essere più forte. Un altro tema emerso nelle audizioni è stato quello dell’inquadramento professionale: si è discusso del tariffario nazionale e dell’equo compenso, ad esempio. Purtroppo, è stata ribadita da più parti la mancanza di organismi di controllo penetranti che permettano di verificare se quell’equo compenso sia effettivamente praticato; da quel che posso dire dalla mia seppur piccola esperienza l’equo compenso è praticato da pochissimi editori, soprattutto nelle realtà locali.

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