Calderoli-Kyenge: nessuna conseguenza per il leghista

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l43-kyenge-calderoli-130715164352_medium«Quando la vedo non posso non pensare a un orango», no però attenzione, vale la pena riportare il virgolettato dell’intero discorso, affinché non crediate che l’offesa mancasse di una ragionata articolazione «Smanettando con Internet – disse Calderoli – apro ‘il governo italiano’ e, cazzo, cosa mi viene fuori? La Kyenge. io resto secco. Io sono un amante di animali, eh, per l’amore del Cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie. Però quando vedo le immagini della Kyenge e quelle sembianze da orango, resto ancora sconvolto».

Era il 13 luglio 2013 e alla festa del suo partito a Treviglio, l’allora ex Vicepresidente del Senato Calderoli, parlava in questi termini di Cécile Kyenge, ex Ministra per l’integrazione.

A quella dichiarazione seguirono le scuse telefoniche di Calderoli, l’indignazione “bipartisan” dell’intera classe politica, e il buon senso della Kyenge che in quanto membro dell’esecutivo affrontò l’intera faccenda riversandola sul piano istituzionale e perdonando, bontà sua, il Robertone del Carroccio, su quello personale.

Mercoledì 4 febbraio 2015. I parlamentari di Pd, Forza Italia, Ncd e Autonomie, cambiando idea rispetto alle loro precedenti dichiarazioni,votano contro la decisione di sottoporre a processo Calderoli. «La condanna politica resta», si è giustificato il capogruppo Pd in giunta Giuseppe Cucca, «però non ci sono le basi per l’istigazione razziale. E il magistrato non può procedere per diffamazione perché non c’è stata la querela da parte del ministro». La querela arrivò infatti da parte di terzi. Ma non è tutto. La condotta di Calderoli viene ritenuta insindacabile in quanto coperta dal primo comma dell’articolo 68 della Costituzione, in base al quale “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.

Immaginiamo il disappunto, a voler usare un eufemismo, provato dalla Kyenge, che si è vista voltare le spalle non solo da quell’opposizione che nell’immediato condannò Calderoli senza appello, ma dai suoi stessi colleghi di partito.

Solo in questi giorni è arrivato il Sì all’autorizzazione a procedere per diffamazione e il no a quella per istigazione all’odio razziale. Il Senato ha approvato con 126 voti favorevoli l’autorizzazione contro il senatore della Lega Roberto Calderoli per aver diffamato l’ex ministro Cècile Kyenge (i no sono stati 116 e 10 gli astenuti), mentre è stata esclusa dall’autorizzazione l’accusa di istigazione all’odio razziale. Calderoli è stato salvato dal processo per diffamazione contro la Kyenge che era ormai cominciato nonostante non fosse ancora arrivata una risposta da Palazzo Madama alla richiesta di autorizzazione a procedere, poiché la votazione dell’autorizzazione a procedere “per parti separate” era stata fatta in modo da evitare il procedimento. Secondo le norme vigenti inoltre, mancando una querela diretta (Calderoli è stato querelato non direttamente dalla Kyenge, ma da una parte terza come già indicato) il procedimento penale si reggeva grazie all’aggravante dell’istigazione all’odio razziale.

Ma l’Alula ha deciso che no, definire la Kyenge un orango, non costituisce un messaggio di istigazione al razzismo. Perché mai dovrebbe, se a pronunciarlo poi è stato un vicepresidente del Senato poi. Stava solo scherzando. La sua opinione scherzosa però, è insindacabile. Di fatto però, l’intero processo, che si baserebbe ora solo sul reato di diffamazione senza più l’aggravante di istigazione al razzismo, non reggerebbe più.

Nessuna conseguenza quindi per Calderoli. Senza precedenti la concessione dell’autorizzazione per parti separate sul reato. La pronuncia della Giunta per le Immunità sul caso Calderoli era stata infatti unica e la richiesta di votare per parti separate è stata avanzata per l’Aula dall’ultimo relatore, Lucio Malan (FI). Il precedente relatore Vito Crimi (M5S) era stato infatti sostituito visto che la sua richiesta di considerare le dichiarazioni di Calderoli sindacabili era stata respinta.

Un meccanismo splendido, che tocca il suo acme con un’altra innocente riflessione che avanza in questi giorni. Il voto del 16 settembre scorso acquista una fondamentale rilevanza politica in vista delle riforme. Secondo il M5S, il Pd le avrebbe “barattate” in cambio del ritiro dei 500mila emendamenti di Calderoli al ddl Boschi, il senatore della Lega Nord, ha infatti annunciato il ritiro di gran parte della mole di emendamenti presentati in Commissione Affari Costituzionali. Renzi dunque ce l’ha fatta, da giovedì la sua riforma costituzionale sarà all’esame dell’aula del Senato.

Inaudito. O forse udito tante, troppe volte. Quando qualcosa si incastra basta un po’ d’olio, un accordo, qualche scambio. Di cui tutti si accorgono e nessuno se ne cura. È così che ha sempre funzionato. Fa parte della dialettica politica italiana. Allora non resta che sperare nell’Europa e di questi tempi, è tutto dire: «Una decisione che getta un’ombra pesante sulla lotta al razzismo, proprio in un momento durante il quale populismo e xenofobia crescono per la emergenza profughi. Il mio perdono a Calderoli l’ho dato, ma non si tratta più di un fatto personale. Ora è una questione di principio perché il messaggio che arriva dalle istituzioni ai nostri ragazzi e giovani è devastante». Da Bruxelles così la Kyenge, ora europarlamentare del Pd, ha commentato quanto accaduto. L’ex Ministra resta comunque intenzionata ad andare avanti e a incaricare il suo legale di sottoporre la questione alla Corte Europea.

(di Azzurra Petrungaro)

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