I curdi, Nazione senza Stato, armati dall’Ue contro il Califfato

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IRAQCon una decisione dello scorso agosto, il Consiglio dei Ministri degli esteri dell’Unione Europea ha dato agli Stati membri il via libera alla fornitura di armi ai curdi iracheni nel quadro della crisi innescata dalla nascita del Califfato islamico ad opera dei miliziani dell’Isil. Tale decisione costituisce un passo non affatto scontato per una nazionalità da secoli senza stato – la più grande nazionalità senza stato, con circa 25 milioni di persone – e che potrebbe aprire nuovi scenari nella lunga lotta del popolo curdo per un riconoscimento istituzionale da parte della Comunità internazionale.

Assoggettati dagli arabi nel VII secolo, i curdi hanno vissuto fino al termine del primo conflitto mondiale tra il territorio dell’Impero Ottomano e la Persia, riuscendo peraltro – tra sottili resistenze quando non aperte rivolte contro il potere centrale – a mantenere la loro tradizionale organizzazione sociale su base tribale.

Fu negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento che cominciò a prendere forma una vera e propria idea nazionale tra gli esponenti della nascente classe media curda. Furono anni di grande attivismo per questi nuovi borghesi la cui formazione avveniva nelle città – in special modo a Costantinopoli, ma spesso anche con soggiorni più o meno lunghi nelle capitali europee – dove più facile era respirare l’aria delle rivendicazioni nazionali proveniente dall’Europa. Nacquero un giornale, il Kurdistan, e, in seguito alla rivolta del 1908 che consentì il ritorno nell’Impero di tutti i notabili curdi esiliati, l’Associazione per lo sviluppo e il progresso del Kurdistan e l’Associazione per la diffusione della cultura curda. Come per tutti i movimenti nazionalisti europei, anche per quello curdo non va però dimenticata la distanza tra le istanze di progresso e rinnovamento delle élite borghesi e lo spirito di conservazione degli assetti della tradizione da parte delle popolazioni non urbanizzate.

Alla fine della Grande Guerra, nel clima di generale – per quanto, si sarebbe poi visto, effimera – euforia per il principio dell’autodeterminazione dei popoli propugnato dalla Società delle Nazioni sotto la spinta del presidente americano Woodrow Wilson, sembrava giunto per i curdi il momento di vedere realizzato il sogno di unità in uno Stato nazionale. Dopo una lunga serie di incontri e colloqui, Serif Pasha, unico delegato per la questione curda alla Conferenza di Parigi, riuscì ad ottenere per il Kurdistan un’autonomia entro confini da definirsi. L’accordo, raggiunto alla conferenza di Sanremo nel 1919, fu ratificato nel 1920 con il trattato di Sévres, che prevedeva la formazione di una entità statale curda, sebbene molto più ridotta della sua naturale estensione e che avrebbe dovuto comunque attendere, per la piena indipendenza, il beneplacito della società delle Nazioni. Tutto questo però proprio mentre stava nascendo un nuovo e aggressivo nazionalismo turco, al quale stavano dando nuova linfa le pesanti condizioni di pace imposte all’Impero ottomano.

L’esito del trattato non fu dunque una vittoria piena per le aspirazioni nazionali curde, sia a causa dei diversi interessi nell’area delle potenze vincitrici, sia soprattutto a causa delle divisioni interne che vedevano scontrarsi la visione autonomista, della quale era esponente lo stesso negoziatore Serif Pasha, e quella propriamente indipendentista. Con un fronte interno così diviso fu dunque impossibile per i curdi riuscire ad elaborare una posizione forte al tavolo delle grandi potenze, cosa che invece riuscì appena tre anni dopo a Mustafa Kemal e per la sua nuova Turchia, che uscì dal Trattato di Losanna del 1923.

Nel trattato che sanciva l’affermazione della nuova potenza turca di Kemal, la quale aveva ottenuto l’appoggio prima dell’Unione Sovietica, poi della Francia e infine il riconoscimento di tutta la comunità internazionale, mancava ogni riferimento al Kurdistan. I curdi si trovavano così divisi in cinque diversi stati: la Persia, l’Iraq, la Siria, l’Unione Sovietica e, appunto, la Turchia, per la quale peraltro non erano considerati minoranza in quanto di religione musulmana. I contrapposti interessi delle grandi potenze avrebbero d’ora in avanti reso di fatto non percorribile qualsiasi ipotesi di formazione di uno stato curdo, che avrebbe minato i delicati equilibri dell’area.

Tra le due guerre, numerosi furono i focolai di rivolta che scoppiarono nelle zone delle nuove frontiere, soprattutto quelle di Turchia e Iraq. La più aspra fu la rivolta dell’Ararat, che dal 1927 al 1930 infuriò nella Turchia orientale. Innescata da un provvedimento del governo turco che prevedeva la deportazione all’ovest di un numero imprecisato di curdi, si esaurì dopo tre anni a causa della sostanziale mancanza di appoggi esterni con la quale gli indipendentisti curdi si trovavano giorno dopo giorno a dover fare i conti. Alla rivolta seguì una violenta reazione del governo turco. La situazione non mutò con la Seconda guerra mondiale. I curdi, divisi tra cinque stati, erano utilizzati ora da questo ora da quello come fronte interno per destabilizzare l’avversario, con la promessa – poi sempre disattesa – di appoggio alla causa indipendentista.

In una simile cornice la lotta armata prese sempre più il sopravvento sui canali diplomatici. Il Pkk, il Partito dei lavoratori curdo di Abdullah Ocalan, scelse questa via nel 1984. Catturato nel 1999 dopo una lunga odissea in cerca di asilo politico, Ocalan ha continuato a lavorare dal carcere per ottenere l’indipendenza del Kurdistan per via democratica, chiedendo al Pkk di arrivare a un armistizio con la Turchia. Il cessate il fuoco è arrivato nel 2013, dopo trent’anni e oltre 40mila morti, ed è stato dato il via a un ciclo di conferenze per elaborare una linea politica di pace e indipendenza.

La questione curda è dunque ancora del tutto aperta. Si vedrà se la decisione del Consiglio dei Ministri degli esteri della UE costituirà un passo decisivo nel percorso di legittimazione del popolo curdo o se sarà solo l’ennesimo atto di opportunità politica contingente da parte delle grandi potenze che così spesso si è ripetuto nella lunga storia sotterranea del Kurdistan.

(di Eugenio D’Agata)

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