Gli Spurs di nuovo campioni: organizzazione e mentalità le basi del successo

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di Emanuele Granelli 

Non chiamerei San Antonio una dinastia. Direi piuttosto una forza, una grande forza. In questi anni non sono stati in grado di vincere consecutivamente dei titoli ma loro sono sempre lì: sai che per vincere te la devi vedere, sempre e comunque, con gli Spurs di Popovich”. Le parole di “Mr. Eleven Rings” Phil Jackson, l’head-coach più vincente della storia della NBA e attuale presidente dei New York Knicks, definiscono alla perfezione cosa sono i San Antonio Spurs. Dal 1997, anno in cui Popovich selezionò alla scelta numero uno del draft Tim Duncan, la franchigia texana non ha mai mancato l’appuntamento dei playoff. Sempre lì. Ma il titolo mancava dal 2007, e la sconfitta di dodici mesi fa per mano degli Heat, (o, per meglio dire, per mano della tripla di Ray Allen) sembrava poter essere l’ultimo atto della saga Spurs. Sembrava.

In sette anni sono successe molte cose: i membri di quella squadra campione nel 2007 si sono ritirati praticamente tutti (Bowen, Horry, Finley), ci sono state diverse eliminazioni brucianti (Lakers ’08, Dallas ’09, Phoenix ’10 e soprattutto Memphis ’11), ci sono stati errori sul mercato (Richard Jefferson? DeColo?) e, soprattutto, si pensava che l’era dei Big Three fosse arrivata alla fine della sua gloriosa cavalcata. Perché in NBA va così, dopo un po’ le cose non girano più e quindi si cambiano.

Invece no. Non sempre “cambiare verso” porta necessariamente a risultati migliori. Se i San Antonio Spurs hanno vinto il titolo nel 2014 battendo i due volte campioni in carica dei Miami Heat, lo devono al fatto di non aver mai ragionato come le altre squadre NBA. Chiunque altro, arrivato a perdere per quattro anni consecutivi in maniera dolorosa ai playoff con una squadra piuttosto “anzianotta” avrebbe distrutto il roster e avrebbe tentato di ricostruire da capo per iniziare “un nuovo ciclo”. Gli Spurs sono invece riusciti a fare una cosa impensabile in altri contesti: ricostruire la squadra rimanendo comunque competitivi per il titolo. Certo, bisogna avere tre Hall Of Famer come Duncan-Parker-Ginobili, un quarto Hall of Famer che siede in panchina come Gregg Popovich e un altro ancora che dirige il tutto da dietro la scrivania come R.C. Buford; ma attorno a questo nucleo di cinque totem è cambiato tutto quanto, dalla composizione del roster alla filosofia di gioco. Nel 2011 sono arrivati Tiago Splitter, Danny Green e soprattutto Kawhi Leonard, fresco MVP alla tenera età di 22 anni; nel 2012 sono arrivati Boris Diaw e Patty Mills; nel 2013 è arrivato Marco Belinelli. Il tutto passando da una squadra che giocava a ritmi bassi, con due lunghi tradizionali e basata sulla mentalità difensiva ad una con un attacco ultra moderno, costruito attorno a concetti di spaziature, circolazione di palla e creatività dal palleggio, con ampio uso di pick and roll. In pratica, il baricentro della squadra è passato da Duncan a Parker e Ginobili, senza che nessuna delle parti ne uscisse sminuita. Ci è voluto un po’ di tempo, ma finalmente ha dato i suoi frutti: i San Antonio Spurs, sette anni dopo l’ultimo titolo, sono di nuovo campioni NBA.

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