La vita di Adele. Eros e solitudine sotto la lente d’ingrandimento di Kechiche

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di Annalisa Gambino

La vita di Adele, Palma d’oro a Cannes 2013, è un grande film. Il regista Abdellatif Kechiche tunisino d’origine naturalizzato francese, dopo il corale Cous Cous passato da Venezia nel 2007, e il controverso Venere nera del 2010, mette in scena la storia di un amore viscerale e ferocemente reale. Una storia che lascia lo spettatore sbigottito e frastornato. Un film che va assaporato fino in fondo, proprio come le ostriche e lo e champagne sempre presenti sulle tavole dei protagonisti.

Liberamente ispirato alla graphic novel Le Bleu est une couleur chaude di Julie Maroh, il film racconta una storia di per sé banale: l’inizio, il durante e la fine di un amore. Le protagoniste sono due studentesse come tante, Adele ed Emma ma ciò che rende originale la vicenda non è l’amore lesbo, perché si tratta di momenti universalmente condivisibili e applicabili ad ogni tipo di relazione di coppia. Ciò che rende questa pellicola un semi-capolavoro, nonostante la lunghezza dei suoi 179 minuti, è la modalità agghiacciante con la quale Kechiche indaga l’eros e la solitudine delle due protagoniste.

L’impressione è quella di una macchina da presa ossessivamente vicina ai volti, alle superfici e alle cose, capace di erodere e attraversare il corpo di Adele ed Emma per metterne a nudo gli stati d’animo. È un tipo di cinema attaccato al viso e al primo piano. Straordinaria in tal senso la prova attoriale della vera Adele, la diciannovenne Adele Exarchopoulos, che si dimostra in grado di reggere le inquadrature volte a smascherare ogni sua imperfezione ed espressione facciale. Sono scelte stilistiche rigorose e difficili da sostenere, che avvicinano il cinema di Kechiche a Haneke e ai fratelli Dardenne in contro tendenza rispetto alla spettacolarità superficiale e veloce della contemporaneità.

L’aspetto che più sconcerta è l’iperrealismo e l’insistenza sul corpo femminile. Sono tre le scene amorose, molto lunghe e decisamente oltre il patinato e il sottinteso, nelle quali tutto si vede e nulla è lasciato all’immaginazione. Nonostante questo, non scadono mai nel pornografico e nel voyeurismo e, nella loro carnale ed eccessiva ferocia, diventano necessarie per comprendere la natura del rapporto di coppia e ascoltare i sentimenti delle due protagoniste. Non si ha la sensazione di spiare attraverso il buco della serratura quanto piuttosto quella di respirare con loro. Ed è grazie a questi momenti che il regista coinvolge con trasporto emotivo e viscerale il suo pubblico, complice delle gioie e dei dolori delle due ragazze. Insieme ad Adele, lo spettatore intraprende un percorso di formazione e scoperta della sessualità fino a possedere e, quasi afferrare, il corpo dell’altra per poi infine vivere l’inevitabile disperazione provocata dall’abbandono.

Kechiche rischia di caricare il film di una valenza sessuale eccessiva che non è tuttavia l’unico elemento importante e funzionale alla narrazione cinematografica. Il film, diviso in due macro sequenze temporali, analizza le diverse fasi del rapporto di coppia – dall’infatuazione alla convivenza, dal quale scaturiscono ben altri ostacoli come le differenti ambizioni culturali e professionali e quindi i diversi approcci alla vita delle due donne. La sessualità di Adele è un pretesto per raccontare la solitudine ”cosmica” a cui tutti sembriamo condannati, ed è proprio l’ultimissima inquadratura a rivelarlo: Adele, amareggiata e gelosa si allontana dalla galleria dove Emma espone i suoi quadri e si avvia sola verso nessuna meta in un marciapiede deserto.

Assenti nella narrazione cliché e colpi di scena, il finale non rivela nulla di eccezionale, mette però lo spettatore di fronte a emozioni crude, reiterabili senza eccezione nella vita di ognuno di noi. La vita di Adele è un disarmante quadro delle debolezze, quotidiane paure e delle difficoltà dell’animo umano filtrate attraverso l’occhio di una macchina da presa fin troppo penetrante.

Scelta obbligata per rendere verosimile il transfert emotivo tra personaggio e spettatore.

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4 thoughts on “La vita di Adele. Eros e solitudine sotto la lente d’ingrandimento di Kechiche

  1. Non mi piacciono le tue recensioni … sono troppo accademiche e non colgono la vera essenza. Sanno di cose sentite e risentite. Non basta essere laureati in cinema per saperlo raccontare. Di sicuro non mi viene voglia di andare a vedere i film di cui scrivi. Non me ne volere non è invidia … è solo una critica da una persona che vive il cinema quanto te ma in modo totalmente diverso. Vai oltre, entra negli attori e nelle loro emozioni e non chiederti il perchè solo delle scelte tecniche del regista …

    -Emma-

    1. Penso che questa recensione sia la meno accademica proprio perché scritta a freddo subito dopo la visione senza pensare tanto ai problemi narrativi, anche perché ho sorvolato sulle ellissi temporali della storia che a mio avviso rendono poco chiaro il reale svolgersi degli avvenimenti.
      Entrare nelle scelte stilistiche penso sia doveroso, se non indispensabile, per il lavoro di critica cinematografica.
      Per quesito genere di recensioni non sono mai entrata in un ambito troppo tecnico e specifico proprio per risultare chiara e comprensibile tutti, studiosi o no di cinema.

  2. Non rosico mica perchè Annalisa la conosco già di “fama” perchè si è laureata due anni dopo di me con i miei stessi professori, ma ho solo avuto la sensazione che non fossero recensioni molto originali che informassero lo spettatore sia della parte tecnica che di quella più espressionista ed emotiva… e scusa se te lo dico l’influenza “Ambrosiana” si sente parecchio.
    Poi noi abbiamo scelto due percorsi diversi, io lavoro in produzione a Milano, quindi non mi interessa nemmeno mettermi in competizione con una “scrittrice”!
    in bocca al lupo comunque!

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