Scandalo negli Usa: 27 persone giustiziate per errore?

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di Sabrina Ferri

Parlare di pena capitale significa affrontare una tematica ancora fortemente dibattuta e una pratica largamente contrastata dalle organizzazioni umanitarie. Essere uccisi per i reati commessi equivale per molti a una chiara violazione dei diritti umani. E se poi quei reati non sono mai stati commessi per davvero allora la questione diventa inevitabilmente qualcosa di inumano poiché a rimetterci la vita, talvolta, sono persone innocenti che finiscono dietro le sbarre pur non essendo affatto dei criminali.

E’ quanto accaduto presumibilmente negli Stati Uniti d’America dove, a seguito di un’inchiesta pubblicata dal Washington Post, sarebbero state ben 27 le condanne a morte viziate da errori dell’FBI e basate su esagerazioni di natura scientifica. L’inchiesta, basata su un’indagine avviata nel luglio 2011 dal ministero della Giustizia americano e che avrebbe preso in esame migliaia di casi di condanne, ha portato così allo scoperto quello che potrebbe rivelarsi un vero e proprio scandalo.

Non sarebbe, tuttavia, ancora chiaro in quante occasioni si sia arrivati a condanne ingiuste. In alcuni casi si tratterebbe di sbagli legati a erronee valutazioni sul ritrovamento di capelli e di peli sulla scena del crimine.  Presunte “prove” che avrebbero spinto gli inquirenti a identificazioni e soluzioni esageratamente affrettate, nonostante, già dagli anni Settanta, le regole dell’FBI stabiliscono chiaramente che il ritrovamento di simili reperti sulla scena del crimine non basta per giungere a un’identificazione sicura.

Nonostante ciò, però, molti agenti sembrerebbero aver ignorato le norme in questione. Finché lo scorso maggio l’FBI ha dichiarato che alcuni suoi esperti avevano tratto conclusioni scientificamente non valide, sovrastimando i risultati della perizia balistica e l’identificazione di un capello, in merito al caso di Willie Jerome Manning, condannato a morte per aver ucciso due studenti universitari e poi salvato in extremis grazie alle dichiarazioni dell’FBI.

Secondo Peter J. Neufeld, co-fondatore dell’Innocence Project, che sostiene i detenuti i quali cercano di difendersi attraverso il test del dna, la revisione dei casi «rappresenta un importante passo in avanti per migliorare il sistema di giustizia penale e la precisione della scienza forense negli Stati Uniti». Un passo in avanti che, però, non basterà certo a restituire la vita a chi l’ha perduta ingiustamente, a coloro che non potranno più gridare la loro innocenza né appellarsi alla giustizia per tornare a respirare la libertà.

 

 

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