College Usa, Moody’s ne mette a nudo le debolezze

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di Emiliana De Santis

Quando si è abituati a percepire un fenomeno come intrinsecamente giusto o profondamente sbagliato, è difficile distruggere quell’idea. E non perché all’essere umano piaccia vivere nell’errore. Semplicemente, costruito un archetipo, smontarlo richiede tanto coraggio, impegnando la capacità di dubitare, di approfondire, di impegnarsi a riconsiderare la realtà. Il sondaggio di Moody’s Investors Service sulle università d’oltreoceano, pubblicato la scorsa settimana, mette in luce proprio questo: il dorato mondo dei campus americani, in cui Barack Obama entra da studente ed esce come candidato alla Casa Bianca, è sulla via del tramonto, insieme a un sistema educativo che, mantenuto dalla ricchezza dei fondi e delle rette, deve ora fare i conti con il netto calo delle immatricolazioni e con il declino qualitativo del capitale umano prodotto.

Sembrava impossibile. È un mito a crollare, quello del sogno americano, della terra promessa in cui tutto è possibile per tutti. Un terzo delle università interpellate, su un totale di 300, ha dichiarato una crescita delle rette universitarie inferiore al tasso di inflazione mentre gli incassi sono diminuiti sia per quelle private sia per quelle pubbliche. Una serie di fattori, combinati tra loro, sono riusciti là dove nemmeno la crisi aveva potuto. Il declino economico e l’esplosione della bolla immobiliare non avevano di fatti inficiato il paradigma, ben solido negli Stati Uniti, secondo cui la laurea è il lascia passare per il successo. I dati di Stanford sulla retribuzione annua di un laureato o di un ex alunno MBA, hanno fatto brillare gli occhi con irraggiungibili cifre da capogiro. Anzi, l’università, seguita da un master, poteva ben figurarsi come un’ottima opportunità di attesa, attesa che il vento dell’economia tornasse a soffiare copioso. Eppure, gli elevati tassi di disoccupazione, il forte mismatching tra formazione acquisita e lavoro svolto oltre che l’intricatissimo nodo del debito universitario, hanno invertito la tendenza. È lo stesso governo a dichiarare che uno studente su sei che ha contratto debiti per assicurarsi una formazione universitaria, è attualmente sul lastrico mentre sono quasi la metà coloro che stanno impiegando venti anni, anziché i preventivati 5 o dieci, per ripagarlo, magari esercitando una professione che poco o nulla ha che fare con quanto studiato.

Il discorso cambia leggermente per i campus privati. Harvard, Stanford, e Columbia University sono ancora prime nelle classifiche mondiali e finanziate solo in parte dal pubblico contributo. I loro investimenti per dotarsi di infrastrutture all’avanguardia e per garantire agli studenti una vita non solo comoda, ma di vero e proprio lusso, le rendono più uniche che speciali ma ne hanno minato le solidissime finanze. E se, fino a qualche hanno fa, un’università costosa era sinonimo di alta qualità, la formazione online e il mismatching competenze/lavoro, unite al minor tempo che gli studenti passano sui manuali, sta gradualmente rompendo il binomio. Il plusvalore di questi grandi campus non è più ripagabile con lo stipendio post-laurea se non per chi si forma nelle discipline scientifiche: conta quindi non l’ateneo di provenienza ma le conoscenze che si sono acquisite. Ingegneri, medici, computer scientist sono tra le figure professionali più ricercate. Meglio se provenienti da Stanford, nulla in contrario se laureate in un community college. Il brand gioca qui un ruolo fondamentale ma solo per chi può ancora permetterselo. Una laurea di questo tipo è un onore e un onere, profumatamente pagato biglietto d’ingresso nel mondo che conta. Sono ormai in pochi, tuttavia, a poter affrontare la spesa e, se per il momento gli atenei privati viaggiano in acque più sicure rispetto a quelli pubblici, il navigar potrebbe non durare ancora per molto. Soprattutto ora che a Washington la trattativa per la rinegoziazione del debito si fa aspra e i tagli alla spesa educativa sono nel mirino dei vincoli di bilancio.

Formazione americana dunque in testa nei ranking internazionali, di certo non paragonabile con le strutture europee e italiane, afflitte – salvo rari casi – dalla crisi economica e dal ristagno accademico oltre che da una preoccupante stasi generazionale. Ma tutte le bolle di sapone sono destinate a scoppiare, anche le più grandi e luminescenti, forse perché più fragili, forse perché effimero specchio di una società che non sa più trovare la sua anima dietro l’oggetto che consuma.

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