Un anno di conflitti, di risoluzioni e di rivoluzioni: cosa resta del 2011?

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di Alessandra Vitullo

Questo 2011 verrà sicuramente ricordato come l’anno delle grandi rivoluzioni. L’esplosione della Primavera araba è sembrata a tutto il mondo l’inizio di una nuova epoca: le immagini di una Tunisi in festa alla fuga di Ben Alì, l’urlo di gioia di piazza Tahrir alla notizia delle dimissioni di Mubarak e poi il divampare della protesta in Libia, in Yemen, in Siria: tutto l’Occidente ha osservato con occhi interessati e speranzosi l’evolversi di questi nuovi processi democratici.

Ma che frutti si raccolgono dopo questa Primavera? In Egitto lo stesso esercito che in febbraio era al fianco dei manifestanti in piazza Tahrir, ora spara sulla folla. In Libia, dopo che le crude immagini dell’esecuzione di Muammar Gheddafi hanno fatto il giro del mondo, seguite dalle felicitazioni di tutta la diplomazia internazionale, il nuovo presidente del Consiglio nazionale transitorio, Abdul Jalil, ha affermato che tutte le nuove leggi saranno in linea con i precetti della Sharia. In Yemen, dopo dieci mesi di protesta, finalmente lo scorso 23 novembre il presidente Ali Saleh lascia il potere, ma da quel giorno ancora decine di persone vengono uccise dalle forze governative. In una Siria devastata dalla guerra civile, a dicembre, si è votato per le elezioni municipali; dopo la morte di 5 mila persone, il potere di Bashar Al-Assad sembra ben lontano dal vacillare, soprattutto dopo il veto posto al Consiglio di sicurezza dell’Onu da Cina e Russia in merito alla risoluzione dell’intervento armato.

IRAQ – Lo scorso 15 dicembre è finalmente giunta la termine la missione Iraqi Freedom, la guerra ingaggiata nel 2003 dagli Stati Uniti per fermare la minaccia rappresentata dalle armi di distruzione di massa presumibilmente possedute da Saddam Hussein. «Ci lasciamo alle spalle un Iraq con un governo sovrano», ha affermato il prsidente Obama, ma ci lasciamo anche un Iraq che ha sulle spalle 60 mila civili iracheni e 4.400 soldati americani morti. A Falluja, dove l’esercito americano ha impiegato armi al fosforo bianco contro l’esercito di resistenza sunnita, il numero di persone, ed in particolare di bambini, affette da tumori supera le percentuali di Hiroshima e Nagasaki.

AFGHANISTAN – L’altra guerra di prevenzione al terrorismo che va avanti dal 2007 in Afghanistan conta ormai 50 mila morti, e il recente report della Ong Anso sembra dimostrare come la guerra non sia stata la risposta giusta al problema; infatti, se nel 2007 il numero degli attentati terroristici si aggirava intorno ai 2.500, nel 2008 il numero è salito a 3.800, nel 2009 a 5.800, nel 2010 a 9 mila, e a 12 mila in questo ultimo anno.

IL NODO ISRAELO-PALESTINESE – Sulla ferita aperta del conflitto israelo-palestinese, gli Stati Uniti hanno deciso di spargere del sale, tagliando circa 200 milioni di dollari di aiuti umanitari diretti all’Autorità nazionale palestinese, in seguito alla richiesta di riconoscimento della Palestina all’Onu. Ritirati anche i finanziamenti all’Unesco, dopo che, il 31 ottobre, ha ammesso il Paese come stato membro. «Lo Stato Palestinese deve nascere tramite un negoziato diretto con Israele, e non mediante iniziative unilaterali all’interno delle Nazioni Unite», ha dichiarato Ben Rhodes, viceconsigliere Usa per la Sicurezza strategica. Intanto l’ultimo raid aereo israeliano sulla Striscia di Gaza è dello scorso 30 dicembre: un palestinese morto.

I DIMENTICATI – Ma per tutti quei conflitti che salgono agli onori della cronaca, ne esistono altrettanti di cui spesso il mondo si dimentica: in Costa D’Avorio, dopo una guerra che va avanti dal 2002 tra l’esercito governativo e le forze ribelli, la Corte penale internazionale dell’Aja ha finalmente arrestato l’ex presidente Laurent Gbagbo accusat di aver commesso indirettamente omicidi, stupri e atti di persecuzione. Dal 2003 in Sudan 300 mila persone hanno perso la vita a causa dello scontro tra i gruppi armati ribelli e le forze del presidente Omar al-Bashir. In Somalia, dal 1991, le varie milizie che si contendono il controllo del territorio hanno provocato la morte di 500 mila persone. Il Ciad è da oltre 40 anni stremato dalla guerra. In Nigeria da 18 anni ci si ammazza per la gestione delle risorse petrolifere provenienti dal Delta del Niger. In Uganda i 25 anni di guerra tra l’esercito di Resistenza del Signore, gruppo di estremisti cristiani, e il governo, hanno ucciso oltre 20 mila persone e creato circa 25 mila bambini soldato. E poi ancora in Indonesia e Filippine, forze armate separatiste, religiose e governative sono in guerra da 40 anni. In Colombia, dalle ultime elezioni del 2010, sono già stati uccisi 36 difensori dei diritti umani, 28 sindacalisti, 50 oppositori politici; ci sono almeno 57.200 desaparecidos, 9.500 prigionieri politici, lo stato è responsabile del 91% dei casi di tortura sui civili e del 98% degli atti di violenza sessuale, anche sui bambini.

CONFLITTI VICINI MA IGNORATI – Poi esistono quei conflitti tanto vicini ma che allo stesso tempo ci sembrano così lontani: come quelli separatisti che si consumano da decenni in Cecenia, Georgia e nei Paesi Baschi, dove recentemente l’Eta ha annunciato l’intenzione di abbandonare la lotta armata. Infine, come non prestare attenzione a quel flebile focolaio acceso dalle centomila persone scese in piazza in Russia per protestare contro l’ultimo risultato elettorale ottenuto dal presidente Vladimir Putin? C’è odore di brogli e i cittadini chiedono nuove elezioni. In molti già si augurano che il caldo vento della Primavera araba possa sciogliere il ghiaccio siberiano.

Foto di Luis Centuriòn

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