Amarcord: Angelo Bellavia, il doloroso addio di un portiere

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Si dice che per far credere a tutti qualcosa non sia importante che il fatto sia vero o no, piuttosto che se ne parli, che la diceria si tramandi nel tempo fino a diventare leggenda. Non sappiamo quante bugie o verità ingigantite ci siano nella triste storia di Angelo Bellavia, quel che è certo, però, è che su questo ex portiere si è abbattuta la mannaia delle malelingue e dell’invidia, ancora oggi che di lui c’è rimasto solo il ricordo.

Angelo Bellavia è un siciliano nato in Eritrea, ad Asmara, il 22 maggio 1950. Tipico uomo del sud, capelli neri e ricci, carnagione scura, sin da bambino esaltato dalla possibilità di diventare portiere di calcio. Cresce ad Agrigento, qualche osservatore del Palermo lo nota e convince il papà ad accompagnarlo nel capoluogo siciliano per un provino. Le qualità ci sono, la determinazione ancor di più, padre e figlio se ne tornano a casa contenti per quella buona impressione che in poche settimane si traduce in lettera di convocazione per il ritiro del Palermo. A 16 anni, Angelo Bellavia può percorrere la strada del professionismo, i pericoli sono tanti, ma il giovane portiere è cresciuto a pane ed oratorio, i preti del collegio di Acireale dove ha cominciato a giocare a pallone gli hanno insegnato il sacrificio e la disciplina, lui vuole metterci il resto per riuscire a sfondare nel mondo del calcio. E’ la fine degli anni sessanta, ci sono pochi televisori e ancor meno partite trasmesse, forse il calcio è più genuino, o forse semplicemente va al passo coi tempi, come del resto accade in ogni epoca.

Si dice che Angelo Bellavia sia troppo bello e sicuro di sé per diventare un professionista, che abbia troppe ragazzine che gli girano intorno e che prima o poi lo distrarranno dal pallone. E’ troppo abbronzato, dicono, ma la realtà è che lui è scuro di suo e in più aiuta la famiglia nei campi quando può e sotto il sole a torso nudo l’abbronzatura è semplicemente una conseguenza del duro lavoro. Bellavia si allena e poi entra a far parte della squadra De Martino del Palermo, una sorta di antesignano della Primavera, dove si fa apprezzare per parate, lucidità e reattività. Si alterna nel ruolo di terzo portiere dei rosanero, all’epoca è già tanto se le squadre hanno un dodicesimo che giochi le amichevoli, figurarsi un terzo portiere che la domenica non finisce nemmeno in tribuna, ma torna a casa dopo essersi allenato la mattina ed aver pranzato con la squadra. Ma Angelo Bellavia è bravo e serio, un’occasione se la merita e l’occasione arriva il 5 aprile 1970 quando è in panchina a Cagliari e prende il posto del titolare Ferretti a mezz’ora dalla fine: è l’esordio in serie A, la prima di 6 apparizioni in massima serie con la maglia del Palermo.

Quel Cagliari-Palermo è una festa per i sardi, lanciati verso il loro primo storico scudetto, ma è anche una domenica di gloria per Angelo Bellavia che esordisce in serie A senza subire reti (il Cagliari è già sul 2-0 quando lui subentra ed il risultato non cambierà più) ed anzi ne evita un paio di cui un intervento prodigioso su Gigi Riva. Il portiere concede anche qualche breve intervista, è un tipo sui generis, per nulla timido, ammette di essere superstizioso, al punto da indossare gli stessi calzini, le stesse mutante e la stessa sotto maglia in ogni partita, nonché di affidarsi a due medagliette portafortuna, tenute al collo insieme ed unite da uno spago. Lontani i tempi dei tatuaggi e delle collanine da rapper esibite nei dopo partita da calciatori annoiati dalle interviste e concentrati sulle applicazioni dei loro smartphone. Tutto al passo coi tempi, lo dicevamo in precedenza. Nel campionato 69-70, Bellavia gioca ancora al San Paolo contro il Napoli in una gara terminata 0-0 anche grazie a tre parate in serie del portiere, e poi contro la Fiorentina.

Dopo due anni in serie B, il Palermo torna in A e Bellavia gioca altre due partite, i rosanero retrocedono di nuovo e per il portiere si aprono le porte del dimenticatoio, inizia a fare il vice, gioca poco, dopo che nel 1971 Fiorentina e Juventus avevano chiesto informazioni al club siciliano, ora nessuno sembra più ricordarsi di lui e la sua carriera scivola lentamente verso la fine. Bellavia non si sposterà mai dalla Sicilia giocando a Palermo fino al 1976, al Siracusa fino al 1979, all’Akragas fino al 1981, al Canicattì dal 1981 al 1983, al Pro Favara nell’83-84, infine ancora all’Akragas l’anno successivo dove chiude una carriera che sembrava poter essere prodigiosa e che, invece, ad alti livelli è durata pochissimo. Nel frattempo si è sposato con la figlia del noto politico socialista Filippo Lentini ed ha avuto una bellissima figlia, Marzia, ma ciò non basta a placare le solite malelingue che lo vorrebbero ogni sera in un letto diverso. Angelo Bellavia è invece innamoratissimo della moglie e di quella figlioletta che si è sempre portato dietro agli allenamenti promettendole in cambio un gelato, anche se lei avrebbe seguito il padre anche senza ricompensa.

Appesi guanti e scarpini al chiodo, Bellavia si stabilisce di nuovo ad Agrigento dove mette in piedi un paio di attività agricole acquistando terreni e campeggi per ospitare turisti. Ha anche un diploma per insegnare educazione fisica nelle scuole, lo chiamano a Licata, lui si alza la mattina alle 6:30 e rincasa solamente la sera, dedicando anima e corpo a tutte le nuove attività che hanno sostituito il calcio. Tutto per provare a dimenticare quel pallone che un po’ lo ha deluso, tutto per respingere una depressione che lo sta squarciando dentro, anche se non sembra. Lui nega, alla famiglia dice che va tutto bene, poi nell’agosto del 1989 prova a tagliarsi le vene dei polsi, ma recide solo i tendini e si salva. In città dicono che sia stato rapito dalla famiglia mafiosa di un boss a cui Bellavia avrebbe circuito la fidanzata, che sia stato tenuto qualche giorno in balia di vili scagnozzi che lo avrebbero malmenato e seviziato; da qui i motivi del tentato suicidio. Voci che andranno avanti per anni: “Bellavia stavolta ha toccato la donna sbagliata“, si scrive, si dice, qualcuno nei bar quasi quasi sostiene pure che se la sia un po’ meritata.

Ma Angelo Bellavia sta male, forse anche per quelle malelingue. Decide di trasferirsi in Veneto a casa di un cugino, la figlia resta in Sicilia perché impegnata con la scuola. Lo rivede per le vacanze di Natale, lo ricorderà spento e mai sorridente, in cura da uno psicologo ma ormai quasi arreso di fronte al male interiore che lo attanaglia. Il 17 gennaio 1991 Angelo Bellavia si toglie la vita non appena tornato ad Agrigento. L’autopsia conferma il suicidio, ma nemmeno questo frena le dicerie che lo collegano a sgarri verso la malavita locale e a chissà cos’altro che nessuno ha ancora scoperto o inventato. La famiglia chiede silenzio e rispetto, gli unici a fare scudo sono i pochi amici rimasti, qualcuno del mono del calcio finge perfino di non ricordarselo, è quasi infastidito dalle domande su di lui, come accadrà pochi anni dopo per Agostino Di Bartolomei e, forse ancor di più, per Giuliano Giuliani, il primo suicida come Bellavia, il secondo addirittura ucciso dall’A.I.D.S. malattia impronunciabile nel fatato mondo del pallone.

Angelo Bellavia vive oggi nel ricordo della figlia Marzia e del nipotino che fa il portiere come il nonno e dicono sia molto bravo. Ma Angelo Bellavia vive anche nel ricordo dei tifosi palermitani più anziani ed appassionati che hanno ancora oggi nella mente i balzi felini di quel portiere che non ha avuto paura mai di gettarsi fra le gambe degli attaccanti avversari, ma che è stato infilato in contropiede da troppe meschinità, mascherate da amici e pronte invece a piantare affilati coltelli dritti nella schiena.

di Marco Milan

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