Gianni Rodari a 100 anni dalla nascita

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Favole, filastrocche e una “Grammatica della fantasia” sempre attuale

DI LAURA GUADALUPI

Un giovane gambero pensò: “Perché nella mia famiglia tutti camminano all’indietro? Voglio imparare a camminare in avanti, come le rane, e mi caschi la coda se non ci riesco

È questo l’incipit de “Il giovane gambero” tratto da Favole al telefono, una delle opere di Gianni Rodari. Qui la fantasia spazia da una strada di cioccolato a un’altra che non va in nessun posto, da confetti che piovono dal cielo a una viola che si trova al Polo Nord. Sono solo alcune delle storie nate dalla penna e dall’ingegno di Rodari, unico italiano ad aver vinto, nel 1970, il premio internazionale “Hans Christian Andersen”, considerato il Nobel della letteratura per l’infanzia.

Quest’anno, esattamente il 23 ottobre, si è celebrato il centenario della nascita dello scrittore che il Ministro per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, Dario Franceschini, ha definito: “genio assoluto della fantasia” e poi ancora: “straordinario scrittore, pedagogista, autore per bambini e ragazzi, inventore di favole e filastrocche. Un intellettuale a tutto tondo che ha rivoluzionato la letteratura per l’infanzia rendendola vivace e divertente”.

Rodari nacque a Omegna, comune piemontese affacciato sul Lago d’Orta, e morì a Roma nel 1980. Dopo il diploma magistrale ha insegnato. Conclusasi la Seconda Guerra Mondiale si è dedicato alla professione giornalistica, collaborando con periodici quali L’Unità, il Pioniere e Paese Sera, solo per citarne alcuni. La pubblicazione delle sue opere per bambini ebbe inizio a partire dagli anni Cinquanta. Compose filastrocche, poesie, favole. Tra i titoli più significativi ricordiamo: Le avventure di Cipollino, Gelsomino nel paese dei bugiardi, Filastrocche in cielo e in terra, Il libro degli errori, C’era due volte il barone Lamberto e il già citato Favole al telefono.

In occasione del centenario numerose sono state le iniziative e le pubblicazioni a lui dedicate, oltre alle riedizioni delle sue opere. Tra tutte, cogliamo quindi l’occasione per rileggere un capolavoro: Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie”. Pubblicato nel 1973, il volume è frutto di appunti raccolti in una settimana di incontri con una cinquantina di insegnanti delle scuole per l’infanzia, elementari e medie di Reggio Emilia. Lo stesso autore ricorda “quella settimana come una delle più belle della mia vita”.

Il “libretto”, come lo chiama lui, non tenta di fondare una “Fantastica” da insegnare e studiare a scuola come una qualunque altra materia, né cerca di costruire una “teoria completa dell’immaginazione e dell’invenzione”. Esso parla “di alcuni modi di inventare storie per bambini e di aiutare i bambini a inventarsi da soli le loro storie”.

Fermamente convinto della necessità di includere l’immaginazione nell’educazione, Rodari consegna al lettore quello che sin da subito è diventato un punto di riferimento per chi si occupa di educazione alla lettura e di letteratura per l’infanzia. “Anche inventare storie è una cosa seria”, afferma, e mette generosamente a disposizione i suoi ferri del mestiere. Il risultato è un libro che Tullio De Mauro non ha esitato a definire “elegante e geniale, un classico” (Paese Sera, 25 gennaio 1974).

Ebbene, cos’ha di così “fantastico” quest’opera? Al di là dei molti spunti e suggerimenti che si nutrono di creatività, ciò che personalmente riteniamo di dover mettere in luce è un concetto fondamentale: la tesi del “binomio fantastico”, che nelle parole di Giulio Nascimbeni “sta a Rodari come quella del fanciullino stava a Pascoli” (Corriere della Sera, 25 agosto 1974).

Secondo questa tesi così come per provocare una scintilla non basta un polo elettrico, analogamente per inventare una storia non può bastare una sola parola, bensì due. Rodari cita Henry Wallon, che nel suo Le origini del pensiero nel bambino, sostiene che quest’ultimo si forma per coppie, secondo una struttura che è, appunto, binaria. Una storia, pertanto, può nascere solo dall’opposizione tra due parole che formano un “binomio fantastico”.

Prerequisito essenziale è la distanza fra i termini del binomio, in modo tale che il loro accostamento, insolito, obblighi l’immaginazione ad attivarsi per trovare un insieme fantastico dove le due parole, dapprima estranee l’un l’altra, possano convivere. Ad esempio, non sarà un binomio fantastico l’associazione “cavallo – cane”, ma lo sarà “cane – armadio”. Le parole, svincolate dal loro significato quotidiano, sono “estraniate” e quindi adatte a generare una storia.

Assodato ciò, esistono numerose tecniche per inventare storie. C’è quella delle “ipotesi fantastiche”, riassumibile con la frase: “Che cosa succederebbe se…”, da completare con un soggetto e un predicato scelti a caso. O, ancora, la tecnica che deforma le parole, magari con un prefisso arbitrario. Sempre in Favole al telefono si trova un esempio lampante di quanto appena detto: ne Il paese con l’esse davanti incontriamo uno “stemperino”, uno “staccapanni”, una macchina “sfotografica”.

Rodari affronta diversi temi, tra cui il limerick e il non-senso, parla della costruzione di un indovinello e propone una miriade di altre tecniche e spunti creativi, come il gioco di sbagliare le storie ed esercizi quali il ritagliare titoli di giornali per mescolarli tra loro e arrivare, così, a notizie assurde o divertenti.

In definitiva, cos’è questa Grammatica della fantasia? Pensiamo innanzitutto a cosa non è. Non è “una teoria dell’immaginazione infantile” né una “raccolta di ricette”, come dichiara lo stesso Rodari. È piuttosto “una proposta” da affiancare alle altre che sono volte ad arricchire di stimoli l’ambiente in cui cresce il bambino.

A questo punto ci si potrebbe chiedere a cosa servono le fiabe. La risposta che ne dà l’autore merita una trascrizione: “Servono proprio perché, in apparenza, non servono a niente: come la poesia e la musica, come il teatro o lo sport (se non diventano un affare). Servono all’uomo completo”, nella sua interezza.

E, aggiunge poco più avanti, una società “basata sul mito della produttività (e sulla realtà del profitto)” e che ha bisogno di “uomini a metà” va cambiata. Questo compito spetta proprio agli “uomini creativi”, che sanno usare la loro immaginazione.

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