Amarcord: le vittorie nere dell’Obilic, la squadra del comandante Arkan
Questa è forse più una storia di spionaggio, sangue e dittatura più che di sport. E’ la storia di un club che dal nulla ha raggiunto fama e successo, ma con evidenti macchie e uno strascico di controversie che ne hanno inevitabilmente oscurato l’ascesa. Il pallone è rotolato anche stavolta, ma dietro di sé ha lasciato una lunga scia maleodorante.
La Jugoslavia post Tito è negli anni ottanta una nazione allo sbando e alla perenne ricerca di un leader che possa guidare il paese con piglio e fermezza. La sensazione comune è che al primo personaggio importante con maggior carisma rispetto agli altri sarà riservato un posto privilegiato in seno ad uno stato in evidente difficoltà. Qui si inserisce la figura di Zeljko Raznatovic che i libri di storia riporteranno più semplicemente col suo soprannome, Arkan. Zeljko Raznatovic è un serbo, figlio di un colonnello jugoslavo e fin da giovane dedito alla malavita: furti, rapine e delinquenza comune sono il suo pane quotidiano, nonostante in Jugoslavia tali reati siano puniti con svariati anni di galera. Ma Raznatovic ama il rischio, soprattutto vuole conquistare tutto ciò che può e se riesce a farlo con forza e violenza tanto meglio. Emigrato all’estero, la sua carriera di manigoldo prosegue e le cronache di Germania, Svezia, Italia, Olanda e Belgio cominciano a riempirsi delle sue gesta e il ragazzo serbo diventa in quasi tutti questi stati un ricercato.
Rientrato in patria dopo la morte di Tito e protetto dal servizio segreto jugoslavo a cui ha fatto diversi favori (passaporti falsi in particolare) in cambio di omicidi su commissione a danno di immigrati bosniaci, croati e kosovari che in tutta Europa mettevano in cattiva luce lo stato slavo, Zeljko Raznatovic entra a far parte del gruppo ultras della Stella Rossa Belgrado e ne diviene il leader assoluto. La curva della squadra biancorossa cambia ben preso i suoi connotati: i ragazzi passano dall’essere dei debosciati con la bottiglia di birra sempre in mano a una frangia violentissima del tifo europeo, odiano l’alcol e si organizzano militarmente per assaltare le tifoserie avversarie. Si chiamano “Delije“, una parola derivata dal turco e traducibile come “Eroi“, anche se di eroico inizia ad esserci ben poco in quella curva dal taglio rude e cattivo che semina risse, botte e delinquenza in ogni stadio e città. Raznatovic è nel frattempo ribattezzato Arkan, un soprannome sulla cui origine esistono svariate versioni ma che si porterà dietro per sempre.
Arkan è ormai un uomo importante e controverso in Jugoslavia, non è soltanto un capo tifoso, è anche un militare facente parte del gruppo delle Tigri che di lì a poco divengono le Tigri di Arkan, una falange violentissima della milizia jugoslava a cui appartengono parecchi ultras della curva della Stella Rossa e che fra il 1991 e il 1995 (in mezzo alla Guerra dei Balcani) compie delitti, stragi e massacri, il più famoso dei quali è il genocidio di Srebrenica in cui vengono trucidati barbaramente oltre 10.000 civili bosniaci dalle truppe di Ratko Mladic, aiutate e sostenute dalle Tigri di Arkan. E’ l’agguato più violento del conflitto, che eccita Raznatovic e i suoi scagnozzi e che lo rende ancora più temibile agli occhi di uno stato che in pochi anni ha perso riferimenti, leader e diversi paesi come Croazia, Slovenia e Bosnia Erzegovina, indipendenti dopo la guerra civile che ha spaccato l’ormai ex Jugoslavia.
Tornato il sereno, per modo di dire, Arkan sveste i panni del militare e indossa quelli del normale imprenditore: acquista proprietà, locali, casinò in particolare, tutte attività perfettamente lecite e riconosciute. Diviene famoso, un rispettabile uomo d’affari che tira su soldi a palate, forse è una delle più celebri personalità in Jugoslavia, ma a cui manca ancora qualcosa per far parlare ulteriormente di sè: vuole diventare proprietario e presidente di una squadra di calcio, utilizzando lo sport come veicolo per sponsor, fama, notorietà e per farsi ancora più ricco. Ci prova con la squadra del cuore, ma la Stella Rossa Belgrado ha la forza politica e sportiva per rifiutare, anche perchè il suo presidente è il più forte calciatore della storia jugoslava, Dragan Dzajic, un monumento in patria, e Arkan lascia perdere. Acquista allora il Pristina, una modesta società kosovara, ma la molla quasi subito perchè la visibilità è pari a zero ed i risultati ancor di più; Arkan cede così il club, non prima però di aver perpetrato una sporca pulizia cacciando tutti i calciatori di origine ed etnia albanese.
L’occasione si presenta così con un’altra compagine dal passato pressochè nullo, l’FK Obilic, formazione dell’entroterra di Belgrado, che prende il nome dall’eroe medievale serbo Milos Obilic, trionfatore nella battaglia serba più famosa, quella della Piana dei Merli, vinta nel 1389 contro l’Impero Ottomano. L’Obilic milita in serie B quando Arkan ne diventa patron nel giugno del 1996 con l’intento di farne il club più importante della Jugoslavia. La squadra con le maglie gialloblu diventa così quella con l’organico più pagato del paese e le nuove tigri non hanno più in mano fucili ma calzano scarpe da calcio e devono correre più e meglio degli altri perchè Arkan non ha mezze misure; dopo una sconfitta, ad esempio, il proprietario serbo della squadra fa ripartire il pullman senza calciatori che sono così costretti a tornare a Belgrado a piedi, sobbarcandosi una camminata di 25 km dopo le fatiche della partita.
Ma chi maggiormente teme l’Obilic ed i suoi metodi sono arbitri ed avversari, tutti intimiditi dalle minacce del club che fa capire che se non avrà una corsia preferenziale per vincere le partite farà valere la violenza, così come i tifosi (nella cui curva militano diversi ex “Eroi” di quella della Stella Rossa, fedelissimi di Arkan) si avvicinano indisturbati agli spogliatoi delle squadre rivali con in mano cinghie, bottiglie spaccate e coltelli: “O vinciamo noi o finite male”. L’Obilic vince la serie B 1996-97 con 15 punti di vantaggio sulla seconda classificata e già in molti iniziano a sospettare che il tutto non sia frutto semplicemente di un organico brillante e di una squadra migliore delle altre. All’esordio in serie A, poi, la matricola ospita gli squadroni Stella Rossa e Partizan nel suo piccolo stadio che può contenere meno di 5.000 spettatori ma che forse fa più paura del Marakana di Belgrado e non per questioni sportive.
Ciò che in Jugoslavia non sanno ma capiscono presto è che Arkan ha un progetto molto chiaro in testa: portare la sua squadra a vincere il titolo al debutto assoluto in massima serie, così da rendere la storia ancor più sensazionale ed accrescere consensi, fama e prestigio agli occhi non solo del suo paese ma anche in Europa dove, in fondo, che ne sanno come vanno le cose nel campionato jugoslavo? E in effetti l’Obilic si issa al comando della classifica e dà vita ad un serrato duello con la Stella Rossa: la squadra è per tutti quella delle tigri, superato il vecchio soprannome di cavalieri, le vittorie arrivano e non sempre sono limpide. L’Obilic perde una sola partita in campionato (contro il Partizan) e all’ultima giornata certifica il suo straordinario, clamoroso ed inaspettato (inaspettato?) successo grazie alla concomitante sconfitta della Stella Rossa contro lo Zeleznik penultimo della classe, una gara per la quale andrebbe scritta una storia a parte per quante leggende verranno create su di essa: si parlerà di minacce di morte ai calciatori della Stella Rossa, di fortissime pressioni sulla federazione e più in generale di un disegno già scritto e predisposto a favore dell’Obilic.
La clamorosa vittoria del campionato accresce in effetti la fama di Raznatovic, ma finisce col diventare l’inizio del suo declino e di quello della squadra che con lo scudetto appena conquistato acquisisce il diritto di giocare la Coppa dei Campioni. E qua iniziano i problemi perchè Arkan non è sconosciuto in Europa e la Uefa, anche solo per decoro, deve mantenere un’etichetta ed una morale che il patron dell’Obilic ed ex terrorista militare non sa neanche dove siano di casa. I vertici Uefa sono chiari: o Arkan lascia la presidenza, oppure l’Obilic è estromesso d’ufficio da ogni competizione continentale. Solo anni dopo il presidente Lennart Johansson conoscerà il macabro retroscena di quella storia: un gruppo di killer lo aspettava sotto i suoi uffici per ucciderlo dopo l’affronto, ma il suo ritardo nell’uscire dal palazzo rispetto al consueto fa fallire il blitz e con le strade ormai piene e il traffico in tilt, il rischio per gli attentatori sarebbe stato troppo alto. Arkan, intanto, non si lascia intimidire o sorprendere e in men che non si dica molla il ruolo di presidente, pur rimanendo proprietario del club, e lo affida a sua moglie Svetlana, una bellissima cantante, regina del Turbo-Falk, il genere musicale più famoso in Serbia.
L’Obilic deve superare due turni eliminatori per avere accesso alla fase a gironi della Coppa Campioni: il primo, contro gli islandesi dell’IBV, viene vinto agevolmente, il secondo è durissimo e si chiama Bayern Monaco. La trasferta in terra tedesca è complicata per gli jugoslavi e non soltanto per questioni calcistiche: Arkan è ricercato in Germania fin dagli anni settanta e a Monaco neanche la sua squadra è vista benissimo. Il calcio fa giustizia, il Bayern Monaco vince 4-0 all’andata e si accontenta dell’1-1 al ritorno, costringendo l’Obilic alla retrocessione in Coppa Uefa dove si ritrova di fronte un altro ostacolo altissimo, l’Atletico Madrid allenato da Arrigo Sacchi. L’Europa non è il campionato jugoslavo, se ne accorgono tutti, Arkan e calciatori compresi: non basta al presidente sguinzagliare un cucciolo di tigre di sua proprietà in campo durante il riscaldamento dei giocatori dell’Atletico, perchè gli spagnoli vincono entrambe le gare e chiudono definitivamente l’avventura dell’Obilic nelle coppe. Non senza incresciosi episodi da pellicola poliziesca: una giornalista madrilena che in un collegamento televisivo aveva bonariamente sbeffeggiato Arkan e sua moglie, viene avvicinata prima della partenza per Madrid da un uomo che le consegna una busta all’interno della quale ci sono alcune sue foto mentre parla al microfono ed una scritta: “Come ti abbiamo scattato queste foto potevamo spararti”. Anche Arrigo Sacchi viene avvicinato da Arkan in persona che gli mette una mano sulla spalla a fine partita e gli dice in un ottimo italiano: “Stasera avete avuto culo”. L’allenatore annuisce, anche perchè la prestazione dei suoi è stata effettivamente poco brillante, ma l’impressione è che una volta tornati in Spagna, possano dire di essere sopravvissuti a qualcosa di assai pericoloso.
Il nuovo campionato in Jugoslavia inizia sulla falsariga del vecchio, ovvero con l’Obilic a battagliare per lo scudetto, stavolta con l’altra grande di Belgrado, il Partizan. La sensazione è di ritrovarsi di fronte ad un’altra squadra di regime, come la Dinamo Berlino nella Germania dell’Est o la Steaua Bucarest in Romania; diverse società del campionato si lamentano, qualcuno parla di guerra e non di calcio, i media riportano in modo asettico le rimostranze, perchè Raznatovic è potente, nessuno vuole rischiare la pelle. Ma la fine di Arkan è vicina, lui e la sua squadra hanno i giorni contati e verranno a breve spazzati via. Proprio mentre le truppe dell’ONU iniziano a bombardare la Jugoslavia per porre fine al conflitto in Kosovo, infatti, ad Arkan giunge il rinvio a giudizio per crimini contro l’umanità e genocidio. Il 14 maggio 1999, complici i continui bombardamenti nelle città del paese, il campionato jugoslavo viene congelato con due giornate ancora da disputare, il Partizan è campione e l’Obilic secondo. Ormai Arkan ha i braccato, attorno a sè gli fanno terra bruciata tutti, anche chi lo aveva protetto ed agevolato negli anni gli volta le spalle. La tigre è sola e il 15 gennaio 2000, prima di andare a processo, viene uccisa in un bar di Belgrado da un giovane ex militare, passato a servizio della mafia balcanica.
E’ la fine di tutto, di Arkan e dell’Obilic che nel frattempo ha assistito inerme allo scorrere degli eventi. La squadra si ritrova senza riferimenti, senza proprietà e con quell’aura di intoccabilità ormai svanita. La retrocessione in serie B arriva nel 2006 ed è solo la prima di una serie infinita che porterà gli ex campioni sin’oltre i confini del dilettantismo e in categorie che in Italia potrebbero essere equiparate alla Promozione. Ben presto l’Obilic torna a calcare terreni polverosi senza che nessuno si occupi più di quella squadra che per un po’ è stata sulla cresta dell’onda, come quel suo presidente dalle alte ambizioni ma dall’etica inesistente. L’FK Obilic, uno scudetto e due finali di coppa nazionale perse nel suo palmares, è ormai relegato ai margini del calcio serbo e i suoi risultati sono consultabili con fatica anche sui portali web.
E’ difficile dire cosa pensassero nel periodo d’oro dell’Obilic i pochi veri tifosi della squadra, gli stessi che ancora oggi non ci stanno a vedere i colori del cuore infangati da quel passato controverso e probabilmente farsesco, ma che la storia così ha consegnato, col pallone a gonfiare reti già predisposte ad arte e un contorno di tensione e violenza che poco ha avuto a che vedere con lo sport. Questo è stato, di questo si è scritto, che piaccia oppure no. Della spedizione ai mondiali francesi del 1998 della nazionale jugoslava non ha fatto parte nessun calciatore dell’Obilic che solo qualche settimana fa aveva festeggiato il titolo.
di Marco Milan