I laboratori dell’umano

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’editoriale del Prof. Carcea
 

Gabriele D’Annunzio, l’esteta armato, l’impavido acrobata impegnato nei teatri di guerra, come nelle innumerevoli battaglie in qualità di raffinato seduttore. Entrato di prepotenza nell’immaginario collettivo del suo tempo ha preteso assoluta solennità, i suoi lettori? Nobili dame, sofisticati bohémien impavidi “reazionari” in preda a nostalgie restaurative, pronti a inneggiare alla guerra, preferendo l’ardimento alla gloria, la “bella morte” a un’esistenza beota.

Il  Poeta Vate, divenuto motivo di scandalo per i “semplici” e follia per i “benpensanti”, rapprsenta, per buona parte dei cririci letterari, l’incarnazione dell’estetizzazione narcisistica, la vita che diventa messa in scena come quella offerta ritualmente a un pubblico di fervide ammiratrici. Queste nobili donne attendevano per ore di vedere apparire, da una finestrella in una stanza adiacente alla loro, il viso del Poeta, che esponeva se stesso come un’opera d’arte vivente. In quei momenti di sospirata attesa si compiva il miracolo di un’esperienza fusionale tra pubblico e privato, vita e opera, divino e umano. Se D’Annunzio avesse potuto immaginare che sarebbe diventato – per citare U. Eco – un “superuomo di massa”, assorbito dalla Società dello spettacolo, avrebbe compreso, con enorme disgusto, di essere divenuto organico al Sistema. Considerrato un intellettuale decadente, D’Annunzio, personaggio scomodo, interventista, teorico del superomismo, istrione  a-morale ha pagato un caro prezzo alla memoria storica, ricevendo in cambio un posto nei libri per il Liceo, utile come esempio di ciò che non deve essere imitato: l’irrazionalismo borghese, la nalattia morale, la Decadence. Quali meriti ha avuto il Nostro, oltre a essere un fine letterato? Il coraggio di scandagliare con sottili versi le ascosità dell’anima, scoprendo in quel tempio, abbandonato e spoglio, la dannazione. Immaginiamo che il poeta componga questi  versi: “Nessun riflesso che è del divino in quelle segrete stanze, la parola senza l’Imago rimane muta e la ragione  soccombe nell’erranza, questa meschina, nel condurre al pensiero il Mondo, crede d’essere prima, in vertà è seconda”.Quindi, lo schianto delle riprovevoli passioni, le sfide amorose a “fil di spada”,  le conquiste, la desolazione mai paga, l’erranza, la solitudine raccontata in questi versi tratti da Meriggio: …”Perduta è ogni traccia dell’uomo /  Voce non suona, se ascolto/ Ogni duolo umano m’abbandona  / Non ho più nome… ” Non ho più nome né sorte tra gli uomini /ma il mio nome è Meriggio/In tutto io vivo tacito come la Morte / E la mia vita è divina”.  Possiamo toccare con mano le pareti interne di un tempio sconsacrato, D’Annunzio ci porta a perimetrare il luogo vuoto dell’interorità in cui non risuona piùla parola di Dio.   Solo con l’illusione dellaVolontà di potenza, madre della follia, l’Oltreuomo di Nietzsche e il Superuomo di D’Anninzio – risvolto della stessa medaglia –  rappresentano   il    tentativo  di   fare   di   sé   stessi un dio.

Senza questa determinazione ogni uomo “Non ha più nome né sorte”, quindi né identità né storia. Come si è giunti a questo risultato, chi potrebbe essere stato per primo a dimostrare che la creatura umana può attingere da sé il proprio essere, senza ricorrere all’Altissimo? Cartesio – l’allievo dei Gesuiti – è il primo a impegnare questa strada, il Cogito ergo sum è la nascita della soggetività moderna, ossia il tentativo di costruire l’umano in un laboratorio antropologico senza Dio. Questo è il nuovo Topos, il luogo della ragione in cui la coscienza si riduce al chiarimento riflessivo di processi razionali, per cui alla domanda: chi è l’uomo? Cartesio risponde: l’uomo, nella sua essenza, è pensiero. Il pensiero è la vela issata dal novello Odisseo per navigare lontano dalla tentazione e dai sortilegi del Sacro, per i quali, l’uomo è figlio di Dio fatto a sua immagine e somiglianza. Il mare è quello della Metafisica, definito da Kant – degno continuatore di Cartesio- : “ Un Oceano in tempesta in una notte buia, senza sponde e senza fari”. Una volta approdato nel  porto sicuro della Ragione, si può stare tranquilli, il Soggetto è salvo e con esso l’essenza dell’uomo e non uno o alcuni in particolare. Neanche gli antichi greci erano riusciti a tanto, per loro l’uomo di valore è il filosofo, ossia, la più alta forma di vita,  per questo, nessuno è uguale a un altro, l’Altro è l’altro, senza la “A” maiuscola: è l’estraneo, il barbaro, lo zotico, lo schiavo, per questi ultimi, la reincarnazione in forma di animale può bastare.

Nel  lumen naturale della Ragione, si spegne il fulgore del divino, Dio muore, come ci ricorda Nietzsche, non per mano di un  uomo qualsiasi, bensì, per mano dei teologi, invidiosi per non essere gli unici “eletti” tra le creature a godere dell’attenzione di Dio. Ed eccoci di nuovo al punto di partenza, ecco la vertigine, come può, la sola Ragione,  esautorare il Sacro e contenere  il senso della umano?  Ecco la parola franta della poetica di Dannunzio di fronte allo smarrimento del senso che  giunge da quella soggettività dimidiata, senz’anima, che si muove nella più spaesante solitudine, di fronte alla quale finaché l’irrazionalismo è un olio santo, a patto che accada qualcosa che “ci faccia sentire vivi”. Il fallimento del progetto cartesiano è sotto gli occhi di tutti, decretato dal copioso proliferare  di figure dell’umano, che hanno continuato a riprodursi in solitudine, finendo per legittimare l’individualismo onnipotente e narcisistico, la cui onda lunga che bagna le nostre coste era preparata da lontano, annunciata dagli antesignani dell’ Umanesimo pagano e i suoi simulacri: l’Uomo Quadrato o vitruviano, il  Principe di Machiavelli, addirittura il Don Chisciotte. Poi, a seguire, l’Ottocento e il Novecento: lo Ubermenche, ossia l’Oltreuomo, l’Esteta armato di D’annunzio, l’Operaio di Marx, il Soldato-eroe nazifascsta, il Compagno comunista, l’Esserci, di heideggeriana memoria, fino al Cittadino globale, il Gay, l’Influenzer, i genitori 1 e 2, Infine,  il Postumano.

Insomma, qualcosa che ci ricorda il teatro dell’assurdo di Samuel Beckett o il nietzscheno “favoleggiare del Mondo”. Il Mondo, ossia il luogo in cui ognuno, secondo un vecchio adagio, vive come un progetto gettato, commistione caotica di interiorità e alterità, di individuale e collettivo, di priavato e pubblico. Luogo immaginale, il Mondo, insieme visibile e invisibile, nei suoi marosi,  si può vivere solo con “prosopopea”, amando il Pròsopon, la maschera, il nostro costitutivo travestimento per assumere i panni della Persona, sentiero misterioso e impervio, mosaico che si compone e scompone senza posa, ferita mai rimarginata; identità mai completa, che può essere compresa solo mortificando la semplice evidenza, la rozza concretezza, per la quale ha diritto di esistenza solo ciò che è visibile e tangibile. Rimane nascosto, con ciò, l’oscuro lavorio del Mondo in cui già dall’origine ognuno è singolarità plurale che orienta la bussola della Storia verso ciò che condividiamo con l’Altro e possiamo osservare solo in questo specchio. 

(di Giuseppe Carcea )

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2 thoughts on “I laboratori dell’umano

  1. Ottimo editoriale. Il Prof. Carcea tocca sempre argomenti che impongono riflessioni su ciò che oramai veniva ritenuto scontato. Del resto la tematica dell’Altro invita sempre alla discussione ed al dibattito. Complimenti all’autore.

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