Amarcord: Luis Hernandez, l’angelo biondo che faceva innamorare il Messico

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Il Messico: una terra splendida, meta di migliaia di turisti ogni anno, paese appassionato di calcio nonostante il locale campionato non sia il più brillante del mondo e nonostante la nazionale non abbia mai raggiunto trionfi continentali ed intercontinentali di rilievo. Di idoli in Messico ce ne sono comunque stati, soprattutto a partire dagli anni ottanta quando il calcio ha iniziato a produrre talenti di discreto valore, primi fra tutti il portiere dalle divise sgargianti Jorge Campos ed il centravanti del Real Madrid Hugo Sanchez.

E’ proprio l’eredità della storica punta che esultava con una capriola a rendere orfani i tifosi messicani, scottati dal poco soddisfacente campionato del mondo casalingo del 1986, dalla mancata partecipazione a quello successivo svolto in Italia e dall’eliminazione agli ottavi di finale ad Usa ’94 dopo la sconfitta con la Bulgaria ai calci di rigore. Sanchez non gioca più, i messicani cercano il suo erede e sperano che il nuovo corso della selezione tricolore possa regalare quelle soddisfazioni che il paese cerca da sempre. E’ proprio in questo periodo che in Messico inizia a farsi notare un giovane attaccante che sembra davvero avere qualcosa in più degli altri, è rapido, bravo tecnicamente, furbo in area di rigore, capacità che gli consente di realizzare tanti gol e diventare l’incubo delle difese avversarie: si chiama Luis Hernandez, è nato il 22 dicembre 1968 e nel campionato messicano sta segnando tanto con le maglie di Queretaro e Monterrey, prima di passare al Club Necaxa che conduce alla vittoria del campionato nel 1995. Hernandez è la punta in rampa di lancio del Messico, la nazionale lo convoca e lui segna anche con la maglia verde che nel 1997 in Bolivia cercherà di vincere la Coppa America partendo tra le favorite assieme ad Argentina, Brasile e Colombia.

Hernandez è il centravanti della nazionale messicana in Bolivia, il paese si aspetta tanto da lui, forse però non fino al punto a cui assisterà nella manifestazione continentale. L’attaccante, infatti, già nel girone eliminatorio realizza 5 reti, le due decisive nel successo contro la Colombia, altre due nell’illusorio doppio vantaggio del Messico contro il Brasile che poi rimonterà vincendo 3-2 ed una nel pareggio contro il Costarica che permette alla nazionale centroamericana di qualificarsi ai quarti di finale dove batterà l’Ecuador dopo i calci di rigore. In semifinale il Messico cadrà contro i padroni di casa della Bolivia, centrando poi il terzo posto grazie all’1-0 sul Perù firmato da Hernandez che grazie a questa rete diventa il capocannoniere del torneo con 6 marcature in altrettante partite. E’ lui il nuovo idolo della nazione, piace ai tifosi per l’attaccamento e la grinta, oltre che per i gol, e piace alle tifose che ne ammirano i tratti del viso da indio combattente e i lunghi capelli biondi tenuti insieme da un elastico. Solo anni dopo, il calciatore confesserà il “trucco” ammettendo di aver sempre tinto la propria chioma.

Dopo un breve periodo in Argentina al Boca Juniors, Hernandez torna al Club Necaxa dove ricomincia a segnare a raffica, mentre il Messico intero si prepara a vivere i mondiali di Francia del 1998 dove la nazionale tricolore ha l’ambizione di superare il taglio di quegli ottavi di finale indigesti nelle ultime edizioni. In attacco c’è un Hernandez in grande spolvero, coadiuvato ed ispirato da Cuauhtemoc Blanco che è centrocampista offensivo e attaccante di movimento, dotato di intelligenza e fantasia, regista di ogni manovra messicana, oltre che giocoliere. Sarà proprio Blanco nella gara d’esordio del campionato del mondo contro la Corea del Sud ad esibirsi in uno dei gesti più curiosi della storia del calcio: fronteggiato da due avversari, gli passa in mezzo saltando col pallone trattenuto in mezzo ai malleoli, operazione, peraltro, andando a cercare il pelo nell’uovo, anche vietata a termini di regolamento. La coppia Hernandez-Blanco, tuttavia, sembra molto ben assortita, il biondo attaccante sigla il secondo ed il terzo gol con cui il Messico ribalta l’iniziale vantaggio coreano; che sia il mondiale delle rimonte per i messicani, lo si evince anche dalla seconda gara quando a Bordeaux con il Belgio i centroamericani passano dallo 0-2 al 2-2 finale che li avvicina ad una qualificazione poi ottenuta all’ultima giornata a Saint-Etienne: il Messico va nuovamente sotto 2-0 contro l’Olanda, poi pareggia nel finale con Pelaez e con Hernandez che irrompe sottomisura e sigla il pareggio. La sua esultanza a braccia aperte con l’elastico dei capelli fra le mani diventa di moda in tutto il Messico: il paese ha trovato il suo nuovo idolo, quell’erede di Hugo Sanchez tanto cercato.

Il 29 giugno 1998 il Messico sfida la Germania a Montpellier per gli ottavi di finale. Il paese centroamericano è paralizzato, il popolo messicano ci crede, la nazionale è solida, determinata, ha qualità e personalità, si diverte pure quando gioca e, soprattutto, non molla mai. La Germania è nazionale blasonata e storica, campione d’Europa in carica, ma è una compagine logora e con tanti calciatori sopra i 30 anni, nel girone eliminatorio ha vinto soffrendo contro Stati Uniti ed Iran ed ha pareggiato 2-2 in rimonta contro la Jugoslavia. La gara è tirata, la posta in palio molto alta e nessuno sembra voler prendere in mano le redini della situazione, anche se la Germania ha una leggera supremazia territoriale, dato anche il maggior tasso tecnico. All’inizio della ripresa, Hernandez si incunea nella difesa tedesca, si fa largo in mezzo alle belle statuine vestite di bianco, poi batte a rete e trafigge il portiere Kopke: Messico 1 Germania 0 al secondo minuto dopo l’intervallo, un gol che esalta i tifosi messicani presenti a Montpellier nell’afosissimo pomeriggio e moltiplica le forze dei centroamericani che poco dopo hanno la clamorosa occasione di portarsi sul 2-0, allorquando Arellano scatta via in contropiede e calcia sul palo, riprende la palla e la offre ad Hernandez che solo davanti alla porta calcia malamente e debolmente addosso al portiere. E’ la parola fine all’avventura messicana ai mondiali e, tutto sommato, anche alla popolarità dell’attaccante.

La Germania vincerà 2-1 nell’ultimo quarto d’ora di gara e il Messico fermerà la sua corsa mondiale nuovamente agli ottavi di finale, mentre Hernandez, deluso ed amareggiato per il gol mancato, continuerà a far gol in patria per altri due anni, fino al 2000, nel Tigres dove realizzerà 38 reti in 64 partite prima di tentare l’avventura negli Stati Uniti con la maglia dei Los Angeles Galaxy, e tornare in Messico nel Club America, la squadra che gli consentirà di essere convocato anche per i mondiali asiatici del 2002 nei quali Hernandez arriverà a 34 anni, coi capelli più corti e il ruolo di chioccia del gruppo, quasi sempre partendo dalla panchina con il centravanti titolare diventato ormai Jared Borgetti. L’avventura del Messico ai mondiali finirà nuovamente agli ottavi di finale dopo la sconfitta contro gli Stati Uniti: Luis Hernandez entra a partita ormai compromessa e non incide, chiudendo così la sua avventura in nazionale e terminando la carriera tre anni più tardi, dopo aver messo insieme ancora una decina di reti nel campionato messicano.

35 reti in 90 apparizioni con la nazionale (terzo marcatore di sempre), quasi 200 totali in carriera ed una discreta popolarità fra il 1997 e il 1999. Nessuno in Europa ha provato a credere in lui, a puntare su quell’attaccante che i gol li sapeva fare, che sapeva muoversi in area di rigore e che, col suo fiuto, era in grado di risolvere anche le partite più complicate. Il Messico ha amato e celebrato Luis Hernandez, artefice di uno dei più apprezzati periodi nella storia della nazionale centroamericana, poi lo ha lentamente dimenticato, forse perchè a lui non sono legati trofei, forse perchè dopo di lui il Messico ha ottenuto grosso modo gli stessi risultati; quella chioma bionda al vento resta però nella mente degli appassionati, con la sensazione che forse in troppi abbiano creduto che il valore di quell’attaccante fosse un po’ finto come quel giallo sui suoi capelli.

di Marco Milan

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