Quaranta anni della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza

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Nel 1978, la promulgazione della Legge 194 riconosceva alle donne il diritto di interrompere una gravidanza non desiderata. Nel 2018, le donne che cercano di esercitare tale diritto sono discriminate e ostacolate anche dagli obiettori di coscienza

La legge 194, approvata il 22 maggio 1978, stabilisce norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria della gravidanza (IVG). Con questa legge, l’aborto cessava di essere un reato praticato in scantinati fatiscenti e ambulatori clandestini. Quella promulgazione è stato un atto di civiltà e oggi, la legge 194 è considerata tra le leggi migliori varate in Europa.

Ciononostante, la sua approvazione ha diviso il paese tra favorevoli (radicali) e contrari (cattolici) innescando una battaglia politica ma soprattutto sociale, etica e morale. La 194 è una legge con una portata innovativa dirompente con la quale lo Stato garantisce “il diritto a una procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”. Ma che specifica: “L’interruzione volontaria della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite”.

La legge fu poi confermata dal referendum popolare del 1981: il 68% degli italiani votò contro la sua abrogazione.

Nel quarantesimo anniversario della sua entrata in vigore, l’Italia resta ancora divisa tra favorevoli e contrari e lo scontro sulla 194 è più che mai vivo. Per chi è contrario all’aborto, la vita umana è tale fin dal concepimento, le donne ricorrerebbero all’aborto come pratica contraccettiva e pertanto vi ricorrerebbero per mero egoismo e mancanza di responsabilità.

Tuttavia, è bene specificare: la scelta di interrompere una gravidanza non è mai facile. Le motivazioni possono essere molteplici (difesa della salute e della vita della madre, gravi malformazioni del feto, gravidanza a seguito di violenza sessuale ma anche il desiderio legittimo di non diventare madre). Deve essere sempre e comunque una libera scelta della donna. Il problema sorge quando questo diritto, e la legge che lo disciplina, non sono garantiti.

La 194 prevede che la donna possa ricorrere alla IVG in una struttura pubblica (ospedale o poliambulatorio convenzionato con la Regione di appartenenza), nei primi 90 giorni di gestazione. Tra il quarto e il quinto mese è possibile ricorrere alla IVG solo per motivi di natura terapeutica. In questo percorso, mai facile, la donna deve essere seguita affinché la sua sia una scelta consapevole, volontaria e necessaria. Per questa ragione, in Italia sono sorti servizi socio-sanitari (i consultori) volti a escludere scelte dettate da poca conoscenza o difficoltà finanziarie.

Frequentando ospedali, consultori e farmacie di tutta Italia è facile rendersi conto che in Italia il rispetto della legge 194 non è scontato. Il punto di partenza è l’obiezione di coscienza di medici e infermieri (obiettano anche i farmacisti, ma la 194 la limita al “personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie”).

Gli ultimi dati ufficiali a disposizione ce li fornisce la Relazione contenente i dati definitivi relativi agli anni 2014 e 2015 sull’attuazione della legge 194 elaborata congiuntamente dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), il Ministero della Salute e l’Istat da una parte, le Regioni e le Province autonome dall’altra. Secondo il rapporto, i ginecologi obiettori nelle strutture in cui si praticano interruzioni di gravidanza sono oltre il 70%, in lieve aumento sul 2015 (+0,4%). Le percentuali più alte si registrano al sud, con il record del Molise dove gli obiettori sono il 96,9%. Se a questi dati si aggiunge che solo in sei strutture con un reparto di ginecologia e ostetricia su dieci si praticano interruzioni volontarie di gravidanza (84.926 nel 2016, in calo del 3,1% rispetto al 2015), in molte regioni il diritto garantito dalla 194 è di fatto negato: “Ci sono strutture dove l’obiezione è totale e altre ridotte a catena di montaggio dell’aborto, con singoli operatori che arrivano a praticarne 400 all’anno” scrive ilfattoquotidiano.it. 

Afferma Lisa Canitano, ginecologa e presidente dell’associazione Vita di Donna: “Nella maggior parte degli ospedali di Roma, il primariato di ginecologia è affidato a medici provenienti da strutture del Vaticano o dell’Opus Dei. Per l’aborto oltre i 90 giorni la situazione è drammatica, a causa dei tanti servizi in mano a strutture religiose come il Gemelli e il Bambino Gesù”.

Poiché la media italiana dei medici che nei reparti pubblici di ostetricia e ginecologia si dichiara obiettore, contro il 10% dell’Inghilterra oppure diversamente dalla Svezia, dove i ginecologi che intendono dichiararsi obiettori vengono “indirizzati” verso altre specializzazioni, esiste il problema delle donne costrette a emigrare all’estero per abortire, a rivolgersi a strutture private o peggio, a ricorrere ad aborti in strutture illegali a rischio della propria salute se non peggio, vita.

Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, rispondendo a un’interrogazione del 2017, ha affermato che –  secondo le stime – ogni anno dalle 12 alle 15 mila donne italiane e dalle 3 alle 5 mila straniere abortiscono clandestinamente, in cliniche o studi medici fuorilegge.

Il San Camillo di Roma è l’unico ospedale dove ci si può presentare direttamente senza passare per un consultorio e dove nel 2017 sono state effettuate 843 interruzioni di gravidanza farmacologiche, divise tra chirurgiche (1323) e terapeutiche (179) e dove si presentano donne provenienti da Molise, Sicilia, Basilicata, Campania, Puglia, Calabria, Abruzzo.

A cosa va incontro una donna costretta a scegliere l’interruzione di gravidanza? Ad attese lunghe e interminabili, incontri nei consultori (spesso religiosi, in Lombardia sono aumentati del 16% in 5 anni) dove capita che la loro domanda venga respinta, la mancanza in alcune Regioni di numeri verdi o siti istituzionali da consultare per avere informazioni, compassione e pietà.

E mentre la cattolicissima Irlanda vota sì all’abrogazione dell’emendamento 8 della Costituzione che sancisce “pari diritto alla vita” per la madre e il feto e quindi vieta l’aborto (salvo casi eccezionali) – referendum che porterà a un disegno di legge che consentirà l’interruzione della gravidanza sino alle prime 12 settimane (prevista l’estensione a un periodo più lungo in casi particolari) – a Roma si è dovuti intervenire per rimuovere dei manifesti antiabortisti affissi su spazi pubblicitari gestiti da privati. Le affissioni sono state un’iniziativa dell’associazione spagnola prolife CitizenGo e hanno scatenato le proteste di numerosi cittadini ed esponenti politici contro quello che è stato definito “l’ennesimo manifesto contro l’autodeterminazione delle donne”. A quaranta anni dalla legge 194. A quaranta anni dal sì alla libertà di scelta per le donne.

(di Alessandra Esposito)

 

 

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