I Press Councils: un’alternativa all’abuso delle querele contro i giornalisti

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I Consigli della stampa (Press Councils) sono strumenti di autoregolamentazione dell’informazione che, se adottati anche in Italia, potrebbero rappresentare una soluzione al “bavaglio” della diffamazione a mezzo stampa

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.

Così recitano i primi due commi dell’articolo 21 della Costituzione Italiana, considerato il primo vessillo etico e deontologico della professione giornalistica. Una professione certamente sui generis, perché legata alla sfera dei diritti e, allo stesso tempo, dei doveri e delle responsabilità. Se da una parte, infatti, essa può definirsi paladina della libertà di espressione sancita, appunto, dall’articolo 21, dall’altra deve essere profondamente consapevole del ruolo cardine che ricopre all’interno della società. Non esiste, infatti, una reale cultura democratica senza un sistema di informazione responsabile, capace di garantire il diritto dei cittadini a ricevere notizie di qualità.

L’informazione, dunque, viaggia su un doppio binario: diritti e doveri, libertà e responsabilità. Il compito più arduo è mantenere l’equilibrio tra questi due terreni, complementari per garantire l’esistenza di un sistema mediatico sano, lontano dalle pressioni del potere e libero, di conseguenza, di esercitare liberamente e responsabilmente il proprio dovere: restituire ai cittadini notizie dotate di credibility and fairness (credbilità e imparzialità). Tutto ciò rientra sotto l’ampia definizione di Media Accountability, un termine che indica, appunto, la responsabilità sociale dell’informazione. Un valore, quest’ultimo, capace di emergere soltanto in un sistema in grado di riconoscere la straordinarietà di questa professione che, proprio perché centrale ed essenziale per la vita democratica, non può essere soggetta a sistemi di regolamentazione e monitoraggio statali. Se, infatti, i media hanno il compito di informare correttamente i cittadini, assolvendo alla funzione più pura e veritiera di “cani da guardia” (watch dog), è necessario sviluppare strumenti di regolamentazione garantisti di indipendenza e promotori di standard qualitativi elevati.

Fonte immagine: web.rifondazione.it
Fonte immagine: web.rifondazione.it

Si tratta dei Media Accountability Systems (Mas), definiti dallo studioso francese Claude-Jean Bertrand come “any non- State means of making media responsible towards the public” (“strumenti non statali per rendere i media responsabili di fronte al pubblico”).  Da questo punto di vista, i Press Councils (Consigli della stampa) risultano essere i Mas per eccellenza, per la funzione che ricoprono e per le loro caratteristiche peculiari. I Consigli della stampa sono, di fatto, dei tribunali alternativi a quelli della giustizia ordinaria, deputati a risolvere le criticità che possono nascere dall’operato dei sistemi di informazione. Integrando al loro interno tutti i protagonisti del mondo mediatico (editori, giornalisti e fruitori), i councils accolgono le segnalazioni degli utenti sui comportamenti scorretti da parte degli attori della professione e, dopo aver verificato che i reclami si riferiscano a infrazioni del codice etico, emettono una “sentenza”, un provvedimento contro il canale di informazione chiamato a giudizio.

Tali strumenti sono diffusi nelle aree europee dotate di una profonda coscienza di accountability legata al mondo dell’informazione. Tra queste, i paesi nordici della penisola scandinava: in Svezia, per esempio, esiste il più antico Press Council al mondo, preso come esempio di organismo funzionale e indispensabile. Ogni Consiglio della stampa presenta caratteristiche peculiari proprie ma due aspetti fondamentali legano questi organismi: l’indipendenza dal potere politico e la facoltà di pronunciarsi attraverso interventi di tipo esclusivamente correttivo. La sanzione principale è l’obbligo di pubblicare il giudizio emesso contro l’organo di informazione imputato; lo scopo perseguito è dunque esporre la responsabilità dell’errore agli occhi dei consumatori, senza la necessità di ricorrere a pene detentive o pecuniarie.

Questo è punto centrale su cui riflettere, in merito alla necessità di istituire strumenti indipendenti, per discutere e risolvere le criticità derivate dalla professione giornalistica fuori dalle aule dei tribunali, soprattutto se si considerano gli ultimi dati del Ministero della Giustizia diffusi dall’Associazione Ossigeno per L’informazione in occasione della Giornata Internazionale per mettere fine all’impunità per i reati compiuti contro i giornalisti, ricorrenza annuale indetta dalle Nazioni Unite ( celebrata dal 24 al 26 ottobre).

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Ogni anno 6813 procedimenti, 155 condanne,100 anni di carcere: questi sono gli effetti delle leggi sulla diffamazione a mezzo stampa in Italia. L’abuso dell’arma della querela è una piaga che mina la libertà di stampa e intacca, dunque, quella media accountability indispensabile per preservare il ruolo di “watch dog” della professione giornalistica. I numeri raccontano una realtà in cui diventa difficile, per i giornalisti, scrivere notizie su temi delicati e controversi. Come si legge nel report “Taci o ti querelo” di Ossigeno: “Un processo per diffamazione a mezzo stampa può costringere un giornalista a difendersi per anni, ad adottare la prudenza più assoluta e a volte perfino il silenzio su certe questioni. Tutti lavorano con una spada di Damocle sospesa sul capo”.

In un panorama di tal genere appare evidente la necessità di cambiare direzione e intraprendere un percorso che preveda tappe ben precise: l’approdo definitivo ad un disegno di legge che abbia, tra i “must have”, la depenalizzazione della diffamazione a mezzo stampa e l’indicazione di istituire strumenti capaci di risolvere le questioni relativi all’ambito dell’informazione in un terreno diverso da quello della giustizia ordinaria. La strada per arrivare a tale obiettivo è ancora lunga, perché prevede una profonda opera di sensibilizzazione non solo verso le istituzioni ma anche nei confronti della cittadinanza. In Italia è necessario, infatti, un cambiamento totale di prospettiva.

Punire un giornalista attraverso risarcimenti in denaro o pene detentive significa recare un danno alla democrazia, ancor prima che al singolo individuo, perché equivale a tagliare le gambe alla libera circolazione delle notizie e non ristabilizza quel meccanismo di accountability indispensabile nel rapporto giornalista-cittadino.

Fonte immagine: palermo.blogsicilia.it

(di Giulia Cara)

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