American Horror Story: Coven – Citazionismo mainstream

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di Beatrice De Caro Carella

Prossima alla sua conclusione oltreoceano, il terzo capitolo della serie horror meglio confezionata di sempre, arriva finalmente anche in Italia e verrà trasmessa a partire da martedì 14 gennaio sul canale satellitare Sky FOX.

Se non sapete di cosa stiamo parlando farete bene a recuperare questa grave mancanza, perché American Horror Story è una serie dalla quale non si può prescindere. Per quanto ben “impacchettata” ma non priva di sbavature; per quanto prodotto di genere e dunque inevitabilmente di nicchia; per quanto rivolta, in prima istanza, a un pubblico nato e cresciuto nel culto dell’horror, sempre pronto a scovare il riferimento nascosto, ad esaltarsi per il tributo manifesto, a perdersi nell’intricato gioco di citazioni e rimandi.

American Horror Story – la prima Murder House, poi Asylum ed oggi Coven – rappresenta il primo storico tentativo del (TV-)show business americano di procedere ad una sorta di enciclopedica ricapitolazione: riformulazione sistematica e combinata dell’immaginario horror prodotto dall’industria cinematografica. Il che non è poco. Di serie antologiche d’ispirazione simile, ma mai così complesse nella loro struttura, la storia della TV ne aveva già viste. Non ultima, Masters of Horror, serie Showtime del biennio 2005-2006: un ciclo di mini-movie auto-conclusivi scritti, diretti o adattati, (vedi H.P. Lovecraft’s Dreams in The Witch House) da grandi maestri del genere (Carpenter, Del Toro, Hooper, Landis, Argento…). Coordinava il tutto Mick Garris, sceneggiatore di fama dei I sonnanbuli di Stephen King e soprattutto story-editor delle Amazing Stories di Spielberg. Un nome, una garanzia. Ma l’operazione commerciale non fu abbastanza furba, ed infatti insieme alla fattura, ed accanto ai riferimenti colti, anche gli ascolti giocano il loro ruolo e ci raccontano qualcosa.

Dunque è bene tenere presente che, rispetto alle sue antenate, American Horror Story ha registrato per FX picchi da record, in occasione di ciascuna delle sue premiere; e vanta oggi, se si guarda al quadro generale, dati d’ascolto in salita. Ma i numeri riportati da The Futon Critic e TV by the Numbers vanno anche interpretati (non solo concludendo che la serie sia semplicisticamente migliore). Vanno letti, infatti, alla luce del gusto insito nella rilettura della storia dell’horror operata da Rhyan Murphy e Brad Falchuk non a caso, la stessa strana coppia dietro analoghe operazioni ad ampio raggio quali Nip/Tuck e Glee. Un gusto che con una certa astuzia e maestria strizza l’occhio al camp, allo snuff, al gore e allo splatter (ovvero ad una sensibilità divenuta un po’ mainstream, alla Hostel e Saw); un gusto che fonde insieme elementi di forte presa, capaci di conquistare un pubblico eterogeneo che, come rivela la Nielsen, spazia addirittura dai 18 ai 49 anni.

Per intenderci sui concetti sopracitati, American Horror Story, soprattutto nella sua veste coven fa un uso deliberato d’inquadrature fuori asse, plongée, contre-plongée, fish-eye, distorsioni (e con quel piglio ironico che, come fece notare Linda Hutcheon è proprio della manipolazione postmoderna che il camp fa del kitch). Al tempo stesso, inscena cruente morti “dal vivo” in stile snuff-movie, recupera leit-motif di culto dal massacro zombie a colpi di sega elettrica con prolifici spargimenti di sangue, all’uomo-mostro-di Frankestein, riassemblato e riportato in vita dall’arte delle streghe in estinzione. American Horror Story attinge alla fiction, ma anche alla Storia – dal caso Black Dahlia alle torture della schiavista Marie Delphine LaLaurie – combinando in un mix surreale che ha qualcosa di implicitamente parodico: mutazioni genetiche di provenienza aliena, mostruose deformazioni della carne, e poi ancora esorcismi, stregoneria, riti vodoo, pratiche di cannibalismo, incesto, morbosità, perversioni e follia. Come ben si intuisce, è un mix dell’orrore che se combinato con l’imbastitura d’una trama densa di colpi di scena rende la serie una rocambolesca ed orgasmica corsa alla trovata, degli autori ma anche del suo pubblico (che nel frattempo gioca al gioco dell’”Indovina la citazione?”).

Non vuol essere una critica, ma la constatazione d’un dato di fatto, laddove un sempre più insistito indulgere su dati fattori d’appeal visivo, ma anche sonoro (si pensi alla magistrale selezione dei temi di stagione, da Tonight You Belong To Me a Dominique e The Lala Lala Song) consente di chiudere un occhio sui piccoli pasticciacci della trama. Non che American Horror Story non abbia un senso, anzi: c’è un discreto compenetrarsi tra l’orizzontalità dello story-arc principale e la verticalità dell’exploitation che ogni episodio fa dell’immaginario horror, piegandolo ai suoi fini. Ma c’è anche una tendenza (sempre più marcata in Coven) a mettere in pentola un po’ di tutto per raccontare piuttosto poco. Accade così che l’attenzione vada scemando, e non a caso i ratings della terza un po’ calando; che le aspettative siano state alte, ma ci si sia persi un po’ per strada.

Ciononostante, rappresenta un unicum imprescindibile. Se non altro, per le sue qualità visive, dalla camaleontica fotografia alla selezione delle musiche, dalla raffinatezza d’alcune suggestioni, alla bravura dei suoi interpreti: sopra tutti, le magnifiche  Jessica Lange e Frances Conroy, la per sempre inquietante Katy Bates, la giovane Taissa Farmiga ed il bravissimo Evan Peters.

 

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