Il ricordo delle vittime di mafia: Nunziata Spina, uccisa per “errore”

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E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, Quasimodo.

di Marta Silvestre

Ogni vittima della mafia è senza colpa. Alcune vittime innocenti della mafia lo sono in modo inconsapevole. Eppure, talvolta, il danno prescinde dall’innocenza e dall’inconsapevolezza.

Nunziata Spina non era una donna che combatteva contro la mafia e, dunque, non avrebbe potuto essere un bersaglio intenzionale.
La sera dell’8 ottobre 1986, all’ospedale Ganzirri – alle porte della città di Messina – Nunziata è in una saletta del nosocomio a chiacchierare con due ragazzi: Francesco Sgroi – di 13 anni – e Pietro Bonsignore – di 21 anni. Ricoverata in fisioterapia, trova la morte in un modo inaspettato e ingiusto: improvvisamente due uomini irrompono nel locale e iniziano a sparare all’impazzata – avendo di mira Bonsignore. Una pallottola vagante colpisce Nunziata alla tempia sinistra, dà ancora qualche segno di vita ma l’intervento dei medici si rivela inutile. E’ stata uccisa solo perché si trovava lì per caso: una atroce fatalità, un destino disgraziato.

Come si può trovare una spiegazione razionale a una tragedia del genere?
Di alcune vittime si conoscono solo – ma almeno – pochi dati anagrafici; ciononostante è importante avere sapere che dietro quel nome c’è una storia, un volto, una famiglia che va avanti e resiste nella sofferenza, insomma, c’è ancora vita. Bisogna coltivare il convincimento che la memoria sia un dovere, un impegno a omaggiare ogni vittima, a custodirne il ricordo contro l’usura del tempo, dell’oblio e della dimenticanza. La scommessa è quella di fare in modo che sopravvivano alla loro stessa morte, che non venga vanificata e non risulti inutile. La vera fine sarebbe il buio e il silenzio di una negligente trascuratezza. E’ doloroso comprendere le storie delle vittime innocenti delle mafie, eppure quando si comincia a sentire nella propria storia personale anche le loro, quando le si incarna, si può onorare la loro memoria con l’impegno di rendere testimonianza.

E’ certamente vero che non ci sono – e non ci devono essere – vittime di serie A e vittime di serie B, eppure esistono delle differenze innegabili nel rapportarsi alle varie storie di vita e di morte: prima fra tutte, la diversità delle emozioni che si possono provare quando vi si entra a contatto. Ogni volta è un turbamento di tipo diverso dal quale scaturiscono pratiche di tipo diverso.

In storie come quella di Nunziata, ci si può ritrovare nella difficoltà di comprendere il senso di questa morte, che non esisteva nemmeno per la mano e per la mente di chi ha colpito, ma deve palesarsi con noi e per noi.

La dignità del sacrificio di queste vite umane stroncate per errore, forse, si manifesta con il semplice fatto di essere state di intralcio al sistema mafioso, non per scelta ma per costrizione o per qualche strano e tragico intreccio del destino.

Queste anime prima sconosciute divengono una ferita che, cicatrizzando lentamente, autorizza e impone di sperare poiché, attraverso una cura amorevole e attenta, il danno anche più devastante si può rimarginare pur lasciando il segno.

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