A proposito di Davis. Viaggio triste nel cuore del folk

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di Annalisa Gambino

Attraverso gli occhi dei fratelli Coen emerge la storia di un giovane cantante folk che, come tanti, non ha sfondato. Siamo negli anni sessanta, nel cuore del Greenwich Village, il protagonista è Llewyn Davis, interpretato da Oscar Isaac. Davis, dopo la morte del suo partner musicale e un disco rimasto pressoché invenduto, non si arrende e cerca con ogni mezzo di farsi strada sulla scena newyorchese.

Il personaggio è liberamente ispirato alla vita del musicista Dave Van Ronk amico intimo del grande Bob Dylan e sul quale è da poco uscita una biografia.

Si tratta di un film maturo per la leggerezza del racconto che tuttavia non rinuncia alla tipica amarezza dei fratelli Coen. Davis è infatti un loser, uno che sbaglia sempre, uno che non vuole stare al gioco del sistema e del mercato. È ostinato a voler vivere con la sua musica e per fare questo è costantemente al verde, costretto a migrare da un divano all’altro e a indossare abiti che a malapena lo proteggono dal gelo. Intorno a Davis ruota uno stuolo di personaggi bizzarri e divertenti che si inseriscono nella texture della cinematografia coeniana. Ci sono gli sposini Jean e Jim  (Carey Mulligan e Justin Timberlake), un ambiguo signore zoppo e drogato (Roland Turne) che con il suo fido autista dà un passaggio a Davis fino a Chicago, quindi il cinico discografico e tutti i musicisti che affollano i locali del Village.  Citazione d’autore per il gatto rosso perpetuo fuggiasco e molto somigliante al micio rosso di Holly in Colazione da Tiffany.

Il titolo originale, Inside Davis è un richiamo alla struttura circolare della pellicola che si sviluppa come un viaggio profondo nella vita e nell’anima del musicista. Il film infatti inizia con la stessa sequenza con la quale si chiude esattamente 7 giorni dopo.

Impossibile non convenire sul fatto che i fratelli Coen abbiano realizzato questo film a consacrazione della loro passione per la musica degli anni ’50 e ‘60, che del resto fa da colonna sonora a molti dei loro precedenti lavori. In A prosito di Davis le note regnano sovrane non solo perché principale materia della trama, ma anche per la scelta di registrare live durante le riprese, senza usare il playback, come accade di consueto. In questo modo cresce a dismisura l’immedesimazione dello spettatore che sviluppa seguendo le scene la vivida sensazione di trovarsi in uno di quei locali bui e fumosi in cui si esibiva un giovanissimo Bob Dylan.

Eppure il film non convince. Nonostante la perfezione della regia e l’uso sapiente di una splendida fotografia desaturizzata – volta a far apparire quasi in bianco e nero la gelida New York – si ha l’impressione di non entrare in sintonia con il personaggio principale. Lo spettatore non riesce a simpatizzare con le scelte di vita di Davis, con la sua reiterata passività agli eventi, causa del suo insuccesso cronico in campo musicale e nei rapporti interpersonali.

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