Donald Trump e i messicani “spacciatori, criminali e stupratori”

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Le dichiarazioni sui messicani dell’immobiliarista-imprenditore Donald Trump hanno riacceso il dibattito sull’immigrazione e sulla politica migratoria degli Stati Uniti.

Il tema è importante e delicato. Importante perché il vantaggio degli Stati Uniti sul resto del mondo è dato anche dal flusso di immigrazione quale risorsa per l’economia. Delicato perché il cambiamento della demografia americana oltre che riflettere l’invecchiamento della componente “caucasica” della società statunitense, impone una riflessione sulle strategie da adottare per una maggiore inclusione degli immigrati ispanici, da sempre i più emarginati.

Lo scorso giugno a New York, Trump ha annunciato la sua candidatura alle presidenziali del 2016 e in quest’occasione ha criticato il Messico, diretto responsabile secondo Trump, dell’ondata di “spacciatori, criminali e stupratori” che si riversa annualmente in America dal Messico.

Se da un lato la paura per la “ispanizzazione strisciante” della società americana (come la definiva Samuel Huntington) ha avuto per Trump pesanti conseguenze (è stato licenziato dalla Nbc che trasmette “The Apprentice”, il reality da lui condotto e le serate di Miss Usa e Miss Universo, prodotte da Trump), dall’altro questa non è più avvalorata da riscontri empirici e induce a qualche riflessione.

Infatti, se è vero che l’attenzione e il dibattito politico sono catalizzati dalle ondate migratorie provenienti in particolare dal Messico, il Census Bureau – organo di censimento ufficiale – ha rilevato che la componente principale dell’immigrazione verso gli Stati Uniti non è più quella ispanica ma quella asiatica. Dopo la recessione 2008-2009 e la crisi del mercato del lavoro americano, sono ripresi gli ingressi: 338.000 asiatici contro i 244.000 ispanici, questi ultimi in calo rispetto al picco registrato nel biennio 2005-2006. Dunque assistiamo a un cambiamento qualitativo del flusso migratorio verso gli Stati Uniti.

In secondo luogo, la transizione demografica in America è compensata dall’arrivo degli immigrati. I cosiddetti baby-boomers (i nati tra il 1945 e 1965 e che in America sono 80 milioni) sono prossimi alla pensione. La popolazione americana cresce comunque grazie al tasso di natalità superiore alla media di altri Paesi ricchi e all’afflusso di “nuovi” cittadini o residenti provenienti da Asia e America Latina. In particolare, gli ispanici in America sono la seconda componente (54 milioni oltre il 50% dei quali di origine messicana) dopo i caucasici  mentre gli asiatici sono terzi con 20 milioni (ma i loro ingressi crescono molto più velocemente degli altri). Tuttavia, gli ispanici svolgono per lo più attività meno qualificate e remunerate (nell’edilizia e nella ristorazione) e restano nelle fasce sociali più basse. Diversamente gli asiatici – che entrano prevalentemente con visti regolari – hanno redditi medi superiori anche rispetto a quelli dei “caucasici” cioè i bianchi di origine europea.

Infine, negli ultimi anni le iniziative per contenere il fenomeno della clandestinità sono state numerose: dal varo di leggi restrittive (in Arizona, ad esempio), alle iniziative di “border enforcement” della Border Patrol (la Polizia di frontiera). Dalla costruzione del muro lungo il confine messicano all’aumento di processi lampo per il rimpatrio di messicani e altri ispanici. Ben lontano dall’approvazione del DREAM Act, che darebbe il permesso di soggiorno permanente ai giovani clandestini cresciuti negli Stati Uniti ma neppure colpevole di totale immobilismo, Obama ha fatto rimpatriare più di due milioni di persone. Triste primato che gli è valso il soprannome di “deporter-in-chief” da parte del NCLR (National Council of La Raza) la più grande organizzazione a sostegno della comunità latina in USA.

In un Paese come gli Stati Uniti dove la maggioranza caucasica (più dell’80%) diventerà minoranza entro il 2044, non è più possibile trattare gli ispanici come gruppo etnico minoritario. In America come in Europa esiste la paura dell’immigrazione. Ma l’immigrazione illegale, soprattutto quella ispanica, non deve essere una giustificazione per l’esclusione sociale. Negli Stati Uniti il problema non sono le frontiere, difficili da attraversare. La campagna presidenziale si giocherà anche sul tema degli “illegal people” perché la sicurezza, resta una priorità anche in America. Lì, come in Italia la questione delle regolarizzazioni è un tema caldo e le iniziative per contrastare o limitare l’ingresso sia di coloro che attraversano il confine sia degli overstayers, ossia immigrati che risiedono nel Paese oltre la scadenza del visto, sono un’arma elettorale. Diverse le proposte in cantiere e un grande obiettivo di lungo termine: una riforma in grado di premiare i clandestini senza precedenti penali che lavorando, contribuiscono alla crescita dell’economia americana.

(di Alessandra Esposito)

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