Guerra e carestia, ecco da cosa scappa chi sbarca a Lampedusa

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di Azzurra Petrungaro

Polvere, mosche e siccità. È l’immagine che il mondo conserva del Corno d’Africa. Stabile e ingiallita come una vecchia istantanea, fedele testimonianza di una tragedia immutabile.

Etiopia, Gibuti, Eritrea, Somalia. Guerre intestine e povertà lacerano queste terre da decenni e nell’immaginario collettivo rappresentano l’intera Africa, con tutti i suoi problemi senza fine e senza soluzione. Se ne parla di rado e solo quando la questione bussa alle porte del nostro Paese. Come giovedì a Lampedusa. Come i 194 morti annegati.

La carestia del 2011. Stando alla definizione della Integrated Food Security Phase Classification, per poter sancire lo stato di carestia è necessario che muoiano per fame giornalmente due persone adulte o quattro bambini ogni 10.000, che non meno del 30% della popolazione sia affetta da malnutrizione acuta e che non meno del 20% delle famiglie, debba affrontare una grave mancanza di cibo.

Nel 2011 due regioni meridionali somale, rispettavano perfettamente questi tre requisiti. Estrema miseria, prezzi dei generi alimentari in continua ascesa, conflitti interni e terrorismo: i fattori determinanti della più grave carestia degli ultimi 60 anni. Il risultato più evidente, lasciando da parte le sconcertanti cifre di decessi, è stato l’esodo di 14 milioni di persone. Fuggite non in cerca di lavoro, casa o di un’istruzione migliore, ma di semplice sopravvivenza. La crisi alimentare ha tuttavia colpito anche gli stati del Kenya, del Sudan e dell’Uganda, che hanno visto subito un aggravamento della loro condizione, all’arrivo dei profughi in fuga.

Eritrea e Somalia. La situazione politica delle nazioni del Corno d’Africa, è notoriamente instabile, falcidiata da conflitti territoriali e governi autoritari che oscurano all’opinione pubblica mondiale, l’effettiva realtà delle circostanze in cui versano queste aree.

In Eritrea la dittatura del Presidente Afewerki, stringe il paese in una prigione naturale, in cui i diritti civili dei cittadini sono sospesi e la libertà di stampa è pura utopia. Inoltre i confini geografici sono continuo motivo di tensione con gli stati confinanti.

La Somalia si trascina, tra profonde divisioni interne, in una guerra civile che dura da più di un ventennio e che ha generato il collasso dell’area, acutizzato dalla carestia del 2011. Nell’ultimo periodo lo scontro ha subito le sanguinose conseguenze della lotta tra l’ICU (Unione delle Corti Islamiche) e il TFG (Governo Federale Transitorio). Tuttavia, nel panorama devastante causato dalla profonda fame inaspritasi due anni fa, le forze islamiche avrebbero abbandonato Mogadiscio in modo definitivo. Il paese sarebbe stato così lasciato ad una fase transitoria, che sarebbe dovuta terminare con l’elezione del Presidente Hassan Sheikh Mohamud, nel settembre del 2012. L’uso del condizionale appare opportuno però, dopo l’attacco terroristico al centro commerciale di Westgate, a Nairobi, rivendicato proprio dai jihadisti somali.

Gli aiuti umanitari. Il paradigma socio-economico al quale si aggancia l’Occidente, continua in questo periodo a manifestare profonde disfunzioni legate alla crisi finanziaria degli ultimi anni. A causa del ripiegamento su se stessi di numerosi stati occidentali, gli impegni in termini di aiuti umanitari verso i paesi del Corno d’Africa non sono stati affatto rispettati. Ciò che si registra è un impegno costante, da parte dei paesi del Golfo, nel fornire all’Africa Orientale il sostegno necessario, orientando alleanze e coalizioni che sfuggono al controllo occidentale. Tuttavia il flusso dei fondi economici stessi inviati dall’estero, diviene in queste aree motivo di scontro. Spesso le valute, vengono intercettate dai signori della guerra che ne dirottano fini e utilizzo.

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