Amarcord: Dejan Savicevic, sognando un genio

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Un fuoriclasse assoluto, un talento incommensurabile. Ma anche un indisciplinato, un indolente, uno che si accendeva e spegneva a proprio piacimento, esattamente come il genio della lampada che esce assieme al suo fumo quando l’oggetto viene sfregato. Tutto questo e forse molto altro è stato Dejan Savicevic, autentico genio del calcio.

Valli a capire gli jugoslavi: estro, fantasia e qualità, spesso e volentieri discontinui. Un calcio che non si è mai realmente espresso fino in fondo quello slavo, colpa del carattere, a volte anche della sfortuna, perché forse la nazionale dei balcani avrebbe meritato qualcosa in più nella finale degli Europei del 1968 contro l’Italia e probabilmente oggi se fosse andata diversamente racconteremmo un’altra storia. A quel calcio è appartenuto anche Dejan Savicevic, classe 1966, calciatore sopraffino, tecnica individuale eccellente, resistenza fisica, visione di gioco, senso del gol, anarchico tatticamente ma capace di far spellare le mani ai tifosi quando era in giornata. Piede sinistro come solo i fuoriclasse possiedono, capacità di mandare in gol i compagni con facilità disarmante e allo stesso tempo mandare i difensori avversari in farmacia con tanto di emicrania. Eppure, oggi non parliamo di uno che ha vinto Palloni d’Oro, classifiche marcatori e premi a bizzeffe, parliamo anzi di un calciatore discusso e per molti versi incompreso, che ha sempre sorriso forse perché in realtà gliene importava fino ad un certo punto.

Del talento di Dejan Savicevic in Jugoslavia (lato montenegrino del paese) si accorgono tutti fin da quando è ragazzino e ubriaca i compagni di scuola con dribbling e scatti in velocità nonostante il peso dello zaino sulle spalle. Si diverte così, poi il gioco diventa un lavoro e Savicevic incomincia a fare sul serio e viene ingaggiato dalla squadra del Buducnost Titograd di Podgorica dove milita dal 1982 al 1988 mettendo a segno 35 reti. E’ un interno di centrocampo, ma in realtà può fare tutto, dal fantasista alla seconda punta, dal laterale in mezzo al campo al centravanti di manovra; dove lo mettono rimane, tanto a lui non cambia nulla perché è un anarchico, non ascolta i dettami tattici dell’allenatore e svaria dove più gli piace, meglio se quando ha la palla al piede, soffre i ripiegamenti difensivi e le urla del tecnico dalla panchina che gli ordina di spostarsi un po’ a destra o un po’ a sinistra. Ad appena 22 anni lo nota e lo acquista la Stella Rossa di Belgrado, è la svolta della carriera per il giovane Savicevic, da molti già definito come il miglior talento jugoslavo della sua generazione.

Ed il ragazzo incanta ben presto gli esigenti tifosi del Marakanà con giocate di livello altissimo, tanto che il capitano della squadra, Dragan Stojkovic, corre dall’allenatore a chiedergli: “Ma chi è questo fenomeno?”. Il 9 novembre 1988 la Stella Rossa ospita il Milan per il ritorno degli ottavi di finale di Coppa dei Campioni: è il Milan di Sacchi, la compagine più forte d’Europa, e forse quel giorno Savicevic capisce che c’è qualcosa che legherà per sempre lui e i rossoneri: a Belgrado c’è una nebbia che si potrebbe tagliare a fette col coltello, il Milan arranca, all’andata a San Siro è finita 1-1 e la Stella Rossa può pure accontentarsi di aspettare le mosse dello squadrone milanista, tanto con lo 0-0 sarebbe comunque qualificata. All’improvviso, proprio Savicevic lascia partire un siluro dal limite dell’area che batte Giovanni Galli: 1-0 e qualificazione vicinissima per gli jugoslavi, anche perché al Milan saltano i nervi, Virdis viene espulso e l’impressione è che la gara abbia ormai preso la direzione dei padroni di casa. Al 57′, però, l’arbitro sospende la partita perché non si vede più nulla ed il regolamento prevede che si riparta dallo 0-0 annullando di fatto il gol di Savicevic. Si gioca il giorno dopo, il Milan vincerà ai rigori e passerà il turno.

Ma la Stella Rossa non si perde d’animo e due anni più tardi vincerà la Coppa dei Campioni a Bari nella finale contro l’Olympique Marsiglia, decisa ai calci di rigore. Savicevic è ormai un punto fermo della squadra biancorossa, resta a Belgrado anche per la stagione 91-92, poi in estate, complice anche la possibilità per i club italiani di avere in rosa più di 3 stranieri, si trasferisce proprio al Milan, voluto fortemente dal presidente Berlusconi che se potesse farebbe schierare al suo allenatore un portiere e dieci fantasisti. Di tutt’altro avviso è il tecnico rossonero Fabio Capello, uno che bada al sodo e che preferisce intanto non prenderle, poi si pensa a fare gol. L’equilibrio tattico è il marchio di fabbrica dell’allenatore che ha vinto lo scudetto al primo anno sulla panchina milanista e desidera ripetersi subito; Savicevic entra in un gruppo formidabile ed appena mette piede a San Siro viene acclamato da un pubblico che si esalta davanti alle giocate del montenegrino che al suo primo a Milano gioca 10 partite di campionato realizzando 4 reti (tutte decisive, come l’1-0 contro il Genoa o la doppietta contro la Fiorentina) e contribuendo alla vittoria del titolo dei rossoneri. Andrà male in Coppa Campioni, invece, perché il Milan vince tutte le partite ma perde la finale di Monaco col Marsiglia, quando però Capello manda Savicevic in tribuna.

Stagione 1993-94: il Milan ha voglia di riscatto in Europa e di conferme in campionato. Savicevic è praticamente un disastro nelle partite di serie A, è come se la sua indole lo faccia annoiare in un campionato che i rossoneri gestiscono agevolmente, accontentandosi di vincere quasi tutte le partite per 1-0, forti di una difesa impenetrabile ed un attaccante letale come Massaro. Sembra non esserci spazio per l’estro di Savicevic che, intanto, la critica ha ribattezzato il genio; Capello lo fa giocare spesso per 55-60 minuti, poi lo sostituisce, di solito con un mediano. San Siro spesso fischia, a volte ce l’ha con l’indolenza del giocatore, altre con l’allenatore che è troppo conservativo. Ma il Milan vince il suo terzo scudetto di fila e la critica non ha alibi, anche se il grande obiettivo dei rossoneri è la Coppa Campioni dopo la beffa dell’anno prima. In Europa Savicevic è un altro calciatore, le serate di coppa lo esaltano, segna contro il Werder Brema sia in casa che in trasferta, poi il 18 maggio ad Atene sforna quella che è la sua miglior prestazione della carriera.

E’ la finale di Coppa dei Campioni e un Milan rabberciato a cui mancano Baresi e Costacurta per squalifica, affronta il Barcellona di Cruyff, favorito della vigilia. Le speranze dei rossoneri sembrano poche, ma il genio sale in cattedra e si carica la squadra sulle spalle come mai prima d’ora: Savicevic corre, lotta, recupera palloni e soprattutto li gioca con tocchi vellutati, compreso quello che permette a Massaro di sbloccare la situazione nel primo tempo; lo stesso attaccante raddoppia poco prima dell’intervallo, poi ad inizio ripresa ecco la gemma di Savicevic: il montenegrino ruba palla sulla linea del fallo laterale nella zona destra dell’attacco milanista, vede il portiere del Barcellona fuori dai pali e, senza pensarci, inarca la schiena e lascia partire un pallonetto di sinistro che si insacca in rete per il 3-0 che, in pratica, consegna la coppa al Milan. Ma non è finita, perché Savicevic contribuisce anche al gol del definitivo 4-0 colpendo il palo sulla cui ribattuta si sviluppa un’altra azione che Desailly conclude in gol. I telecronisti della Rai, Bruno Pizzul e Carlo Nesti, sono estasiati, perfino Capello che per tutta la partita è stato una maschera di ghiaccio, si lascia andare ad un sorriso, probabilmente pensa: “Se Savicevic giocasse sempre così…”.

Ma Dejan Savicevic è questo, prendere o lasciare. Nella stagione 94-95 stabilisce il suo primato di reti in serie A: 9 in un campionato in cui il Milan lascia lo scudetto alla Juventus, vince Supercoppa Europea e Supercoppa Italiana, ma perde un’altra finale di Coppa dei Campioni, stavolta a Vienna contro l’Ajax dell’ex Rijkaard. E questa volta Savicevic si fa preferire in campionato dove viene ricordato per il bellissimo gol di Reggio Emilia il 30 aprile 1995 quando decentrato sulla sinistra manda la palla all’angolino basso con un colpo lento ma preciso, quasi da biliardo, e per il poker siglato a Bari il 15 gennaio nel 5-3 del Milan in casa dei pugliesi, anche se brilla pure in coppa segnando una doppietta nella semifinale di ritorno contro il Paris Saint Germain. Nell’estate del 1995 Berlusconi aggiunge altra qualità ad una squadra già eccezionale: dal Paris Saint Germain arriva il centravanti liberiano George Weah, dalla Juventus Roberto Baggio. I giornali si scatenano: come farà Capello a far convivere Baggio e Savicevic? C’è la grana del numero 10 perché proprio dal campionato 95-96 subentra la numerazione fissa: a chi andrà la prestigiosa maglia? Baggio fa il signore, è appena arrivato e non intende usurpare nulla, per cui lascia il 10 a Savicevic e si accontenta del 18.

La convivenza fra i due non è semplice, soprattutto perché Capello chiede sacrificio, storce il naso davanti alle giocate funamboliche a cui preferisce la praticità di un passaggio semplice a due metri. E’ la grande contraddizione del Milan, una squadra costruita per lo spettacolo ma condotta come un esercito militare. Ma i rossoneri vincono e alla fine ha ragione Capello: 4 vittorie nelle prime 4 partite, poi il successo nel confronto diretto con la Juventus, tutto fa capire che la compagine milanista tornerà a primeggiare in Italia, e pazienza se la convivenza fra Baggio e Savicevic in campo sia più complicata del previsto, anche perché Capello a volte sostituisce uno e a volte l’altro, irritandoli entrambi e irritando pure il pubblico. Il montenegrino segna nel derby contro l’Inter la rete che vale l’1-1 finale, poi va in gol di testa contro il Piacenza il 26 novembre su assist proprio di Baggio. Entrambi segnano nel 3-0 del Milan contro la Sampdoria il 7 gennaio 1996 in quella che è una delle più belle gare dei rossoneri in campionato: sotto una pioggia battente e su un campo infangato, Savicevic fa gol colpendo la palla sotto in maniera furba, intelligente ma anche pratica, Baggio dribbla due difensori e poi spara una bordata in porta. Bel Milan, scudetto numero 15 in bacheca, peccato per le eliminazioni in Coppa Uefa (per mano del Bordeaux) e in Coppa Italia contro il Bologna che milita in serie B.

A maggio del 1996 Capello lascia il Milan all’uruguaiano Tabarez che a dicembre sarà rimpiazzato dall’infruttuoso ritorno di Sacchi. I rossoneri vivono un’annata da incubo, arrivano undicesimi in classifica e perdono addirittura 6-1 a San Siro contro la Juventus. Savicevic viene inghiottito dall’involuzione globale della squadra, segna appena un gol in campionato (contro l’Udinese) ed appare in evidente calo fisico e motivazionale. Il montenegrino è lento e svogliato, il pubblico lo fischia sonoramente. Nell’estate del 1997 a Milanello torna Capello dopo l’anno trascorso al Real Madrid dove, tanto per cambiare, ha vinto lo scudetto. Il Milan torna ad essere una delle principali candidate al titolo, ma il ciclo è finito: i senatori dello spogliatoio non rivolevano il tecnico friulano, i risultati sono pessimi, i rossoneri sono se possibili ancora peggiori di quelli dell’anno precedente. Savicevic è un fantasma, vaga per il campo, nella gara persa in casa contro il Lecce si fa espellere per una gomitata a palla lontana, in campionato non segnerà mai e giocherà appena 8 gare. L’unica gioia della stagione per il popolo milanista è il derby di Coppa Italia contro l’Inter, vinto l’8 gennaio 1998 per 5-0, gara in cui va in rete anche Savicevic. Sarà l’ultima in maglia rossonera.

A giugno del 1998, infatti, il montenegrino lascia Milano e l’Italia, la sua carriera è ormai agli sgoccioli, resta inattivo fino a gennaio del ’99 quando torna alla Stella Rossa giocando appena 3 scampoli di partita. Nell’estate del 2000 si trasferisce in Austria al Rapid Vienna dove gioca per due stagioni mettendo a segno 11 e 7 reti in campionato. Nel 2001 si ritira, lasciando gli appassionati con il grande interrogativo: cosa avrebbe potuto fare con una testa diversa? Gliel’hanno pure chiesto, lui si è limitato a sorridere scrollando le spalle, esattamente come faceva in campo quando, probabilmente, riteneva che bastasse la tecnica per vincere le partite. Non aveva ragione, non aveva ragione neanche Capello ad imbrigliarlo in una ragnatela tattica che ne limitava l’estro; col giusto compromesso, forse, Savicevic avrebbe scritto pagine indelebili nella storia della serie A in cui, al contrario, è ricordato come un talento discontinuo, capace di alternare giocate straordinarie a prestazioni incolori. Anche i tifosi si sono sempre divisi fra chi lo avrebbe voluto sempre in campo e chi, come l’attore Diego Abatantuono, smise addirittura di andare allo stadio a vedere il Milan fin quando avesse giocato il montenegrino.

Certi calciatori divideranno sempre spettatori e critica, spaccando i giudizi fra chi pensa al risultato e chi ama il divertimento. Dejan Savicevic è stato il prototipo della discontinuità, dell’atleta genio e sregolatezza, dell’indolenza fatta persona, ha diviso i tifosi della Stella Rossa prima e del Milan poi, ha regalato gemme e delusioni, ma è rimasto nella mente di almeno una generazione che ancora oggi è orgogliosa di aver ammirato un talento simile. Forse con un’altra testa sarebbe andata diversamente? Forse, ma forse con un’altra testa non avremmo visto Dejan Savicevic, il genio che tutti noi vorremmo essere almeno per un giorno.

di Marco Milan

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