Amarcord: Steve Bull, il bomber dei poveri

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Non è vero che tutti i calciatori sono mercenari, tutto soldi, contratti e menefreghismo della passione per il pallone. A volte c’è anche il cuore, il coraggio di fare scelte sulla carta meno intelligenti di altre e la voglia di imporre il sentimento a tutto il resto. Se conoscete già la storia di Steve Bull, allora sapete di cosa parliamo, altrimenti leggete con attenzione.

Steve Bull è un combattente sin da quando è soltanto un bambino e, se nel nome di una persona c’è il suo destino, allora il suo gli si accomoda alla perfezione come un vestito fatto su misura. A testa bassa come un toro fin dall’infanzia, perché la famiglia di Bull non è di certo benestante, tutt’altro, da mangiare ce n’è giusto a sufficienza e i genitori gli parlano chiaro: va bene divertirsi col pallone, ma dopo la scuola c’è la fabbrica. In più, i sogni del piccolo Steve sembrano interrompersi subito, perché mentre gioca sente dolore, allora lo portano dal medico che riscontra una particolare malformazione ossea che fa spostare qualcosa durante i movimenti di sforzo fisico che causano fastidio e dolore. I dottori gli sconsigliano l’attività sportiva, ma lui va avanti a testa bassa, come un toro, per l’appunto. Gioca coi dilettanti locali del Tipton, finché non lo scovano gli osservatori del West Bromwich Albion che gli propongono un contratto: è il salto nel vero calcio.

E’ il 1985, Bull ha vent’anni e una valigia di sogni da portare con sè, è un classico centravanti all’inglese, tecnica non eccelsa, fisico imponente, abilità aerea, grinta e coraggio da vendere. Dopo qualche presenza col West Bromwich, viene ceduto al Wolverhampton, senza sapere ancora che quella con la maglia arancione sarà la più bella storia d’amore della sua vita. Il Wolverhampton nel 1986 milita in quarta serie, dimenticato da tutto e da tutti, comparendo solamente nei giornali locali con qualche trafiletto e su quelli nazionali solo nei resoconti di fine stagione. Anche allo stadio Molineux ci vanno ormai solo quei pochi affezionati che non ce la fanno proprio a stare senza i Wolves, ma che sugli spalti spesso sbadigliano, al massimo imprecano, di solito guardano la partita con espressione rassegnata. Steve Bull entra in quel mondo malinconico in punta di piedi, poi inizia a far rumore, soprattutto coi gol.

Nella stagione 87-88 ne segna addirittura 52 fra campionato e coppa, il Wolverhampton ottiene la promozione e i tifosi si affezionano a quel nuovo centravanti che segna tanto e getta sempre il cuore oltre l’ostacolo. L’anno dopo i gol sono 50 ed ecco la promozione in seconda divisione, oltre alla comparsa in città delle maglie col numero 9 e la scritta God, Dio. Già, perché per la tifoseria questo è diventato Steve Bull, grazie alla sua grinta che, assieme ai gol, sta trascinando la squadra arancione ad una rapida ascesa dopo anni di silenzioso anonimato. Ma c’è dell’altro: il centravanti del Wolverhampton rifiuta proposte da categorie superiori pur di rimanere a giocare lì dove è stato adottato e dove ha promesso di riportare la squadra ancora più in alto. Nella primavera del 1989, inoltre, Bull viene convocato in nazionale dal commissario tecnico Bobby Robson nonostante sia un calciatore di terza divisione. Il 27 maggio 1989, Steve Bull fa gol all’esordio con l’Inghilterra segnando alla Scozia poco dopo essere subentrato.

E’ una storia di cui in Gran Bretagna iniziano a parlare, ma all’attaccante di finire sui giornali interessa poco, lui più che parlare preferisce fare gol e il suo ruolino di marcia è sbalorditivo: 37 reti in campionato nella stagione 88-89, 24 in quella successiva, 26 nel 90-91, 20 nel 91-92, anno della promozione del Wolverhampton nella serie B inglese dove i Wolves si stabiliranno per diverse annate. Bull, nel frattempo, partecipa perfino ad Italia ’90 dove gioca 4 partite su 7, oltre a continuare a rifiutare offerte da numerosi club inglesi che vorrebbero ingaggiarlo, perché lui sta bene al Wolverhampton e non vuole lasciare squadra, città e gente. Segnerà ancora diversi gol, divenando l’idolo assoluto del Molineux ed ottenendo perfino un’onorificenza dalla Regina Elisabetta nel 1999, subito dopo aver lasciato il Wolverhampton dopo 561 partite e 306 reti. Gli è stata dedicata una tribuna allo stadio e in quella giornata Bull era talmente emozionato che riuscì a stemperare la tensione solamente con una battuta: “Sono contento, ma di solito le tribune si dedicano ai morti“.

Steve Bull non è stato forse il miglior calciatore nella storia del calcio, eppure ha fatto innamorare di sé tutti, i suoi tifosi in primis, gli appassionati di calcio e di sport che gli hanno riconosciuto fedeltà, senso di appartenenza e cuore, oltre alle doti agonistiche che gli hanno permesso di essere una delle punte più prolifiche della sua generazione, seppur in categorie inferiori alla Premier League. Dopo il ritiro, ha iniziato ad allenare ed ha lanciato una linea di abbigliamento chiamata 306 come il numero dei suoi gol col Wolverhampton e che vende ogni capo in soli 306 esemplari.

di Marco Milan

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