Amarcord: Ciprian Anicai, quando il calcio uccide

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Questa è una storia brutta, una di quelle che fa male leggere ed è complicato scrivere. Il calcio, va detto, è protagonista ma in fin dei conti rimane sullo sfondo, perché in realtà è una storia di cronaca, ma soprattutto è una storia che fa schifo. E’ la storia di Ciprian Anicai, giovane talentino del calcio rumeno, ucciso forse solo per invidia.

Alla fine degli anni novanta il calcio italiano è visto ancora come uno dei migliori d’Europa, forse il meno spettacolare ma certamente il più completo tatticamente. Chiunque arrivi dall’estero a giocare in Italia impara cosa sia realmente l’aspetto tattico applicato al gioco, l’applicazione degli allenatori circa il rispetto delle due fasi, offensiva e difensiva, l’attenzione ai particolari. In Spagna e in Inghilterra si gioca probabilmente meglio, si vedono più gol, ma anche perché si commettono più errori e le difese in maniera specifica sono meno preparate e più portate all’approssimazione. Ma l’Italia in quegli anni è anche meta di un’immigrazione (spesso clandestina) proveniente dai paesi del nord Africa e dell’est europeo, fatta di fame, disperazione e necessità di lavoro, nonché preda di spietate organizzazioni pronte a lucrare sul bisogno di quei poveretti. E’ in questo periodo (primi mesi del 2000) che a Cesena si svolge un torneo calcistico giovanile a cui partecipa anche la squadra rumena del Ceahlăul; i calciatori sono tutti minorenni, la manifestazione serve a loro per iniziare a giocare anche partite internazionali, nonché ai club di tutto il continente che possono sguinzagliare i propri osservatori per scovare qualche piccola promessa e portarsela a casa a prezzi stracciati.

Fra i rumeni del Ceahlăul ci sono due ragazzini che promettono bene: fatalità, entrambi hanno il medesimo nome di battesimo, Ciprian, uno fa l’attaccante e di cognome Anicai (ed è il più dotato tecnicamente), l’altro di cognome fa Tampau ed è una mezzapunta, impiegabile pure a centrocampo ma con spiccate doti offensive. Per entrambi, poveri e con poche prospettive di affermarsi in patria, il calcio è un miraggio e il quello italiano il massimo dei sogni: soldi, fama, successo, notorietà, belle donne. I loro idoli sono Batistuta, Crespo, Vieri, Baggio, Del Piero, Inzaghi, Totti, ovvero il meglio che l’Italia del pallone possa sfornare fra la fine degli anni novanta e l’inizio dei duemila. Ma sfondare e farsi notare non è semplice per due ragazzetti rumeni, timidi ed ancora inesperti, entrambi alla soglia della maggiore età. L’idea è un lampo, non si sa a chi dei due venga, ma alla fine la attuano insieme: scappano dall’albergo e si incamminano per l’Italia con l’unico obiettivo di rimanere nel bel paese senza far ritorno in Romania dove c’è povertà e poche possibilità di affermarsi nel lavoro e nel calcio. Ecco, il calcio: i due Ciprian vogliono chiedere “asilo” a qualche squadretta di provincia, farsi tesserare e regolarizzare, sostenendo provini e cercando il grande salto.

Sono senza documenti, senza casa, senza soldi e senza cibo. Arrivano a Roma, ma la città è troppo grande e dispersiva, non hanno neanche una mappa per orientarsi, allora si recano alla stazione Termini e salgono su un treno, decidendo di scendere alla prima fermata utile (o almeno così narra la leggenda). Si ritrovano a Nettuno, sul litorale laziale, dopo Ostia, Pomezia e Anzio. Chiedono in giro nel loro italiano un po’ stentato ma tutto sommato comprensibile, vogliono sapere dove sia la sede della locale squadra di calcio; alla fine gli indicano la strada e loro bussano ai cancelli: li accolgono, li fanno lavare, mangiare e riposare, poi arriva il presidente, Tonino Nocera, che li squadra, gli chiede come abbiano fatto ad arrivare fin lì, probabilmente non ci sono arrivati neanche per caso ma grazie a qualche dritta giusta, fatto sta che il Nettuno li fa rimanere, ma soprattutto li veste con maglia, pantaloncini e scarpini, li spedisce in campo e agli ordini dell’allenatore in seconda della squadra li fa allenare: “Vediamo cosa sapete fare“. I due Ciprian sono bravi, Anicai in particolar modo ha il gol nel sangue, ha grinta, è grezzo tatticamente, va solo incontro alla palla, spesso sbaglia i movimenti, ma agli occhi di un esperto non sfuggono certi dettagli ed il ragazzino può crescere e diventare un bravo calciatore. Anche Tampau è bravo, ma è più scolastico, certamente meno dotato dell’amico.

La società nettunense li tiene, ne regolarizza i documenti e trova loro perfino un alloggio, a due passi dal campo. Inoltre, i due giovani rumeni si guadagnano qualcosa anche facendo i raccattapalle durante le partite ed aiutando qualche volta gli addetti a rimettere a posto un giorno l’armadietto difettoso all’interno dello spogliatoio, un giorno la perdita nelle docce. La storia dei due piccoli clandestini, intanto, fa il giro delle testate laziali e alla fine varca anche i confini regionali; qualche osservatore li va pure a vedere, intanto si muove anche più di un procuratore, pronto a fiutare l’affare ed eventualmente a mettere le mani su due possibili galline dalle uova d’oro. Probabilmente è nello stesso periodo che nell’ombra c’è gente ben più pericolosa degli agenti del calcio a tramare qualcosa: si parlerà di organizzazioni che illegalmente gestivano il traffico di giovani calciatori provenienti dall’estero e da piazzare in giro per l’Italia dietro pagamento di mazzette. Giri loschi che avrebbero coinvolto Anicai e Tampau che, nel frattempo, continuano a divertirsi, a lavorare, ad allenarsi e a sognare il grande calcio. Qualcuno parla già con loro di interessi dalla serie B, si vocifera di uno squadrone del nord Italia che li vorrebbe invitare per un provino (forse il Genoa, ma nessuno lo confermerà o smentirà mai). Ma niente di tutto ciò vedrà mai la luce.

Cosa accada esattamente nessuno lo sa con certezza, ma la mattina del 5 giugno 2000 il cadavere di Ciprian Anicai viene ritrovato in mezzo alla spazzatura, avvolto in un sacco nero e adagiato (o forse gettato) fra due cassonetti. Il cranio fracassato e le numerose ecchimosi sul corpo, testimoniano la morte violenta del ragazzo, ucciso da ignoti. O meglio, i responsabili del delitto rimangono ignoti per poco perché a qualche ora dal ritrovamento del povero ragazzo, i carabinieri del nucleo di Frascati arrestano proprio l’amico di Anicai, Ciprian Tampau, ed un suo parente, Dumitru Valtolas, 50 anni circa. Sono stati loro a commettere l’omicidio, si dirà che ad ammazzare Anicai sia stato proprio Tampau e che il più anziano parente lo abbia aiutato solamente a nascondere il cadavere. Si dice, pare, sembrerebbe. C’è poca chiarezza, se non che il delitto sia stato perpetrato a causa della gelosia: forse Anicai era stato convocato per il provino e Tampau no, forse Anicai era ritenuto più bravo, forse c’era posto per uno solo, forse anche stavolta Caino ha ucciso Abele, perché i due Ciprian non erano fratelli di sangue ma, in fondo, il loro legame era così stretto che nessuno si sarebbe scandalizzato se fossero stati definiti tali. Ciprian Anicai è stato ucciso a mazzate, mentre era in cucina a casa sua, stava mangiando un piatto di pasta e piselli, si sentiva al sicuro, protetto dalle mura domestiche.

La vita di Ciprian Anicai è finita così, ad appena 19 anni, ammazzato senza un perché, probabilmente con l’unico torto di essere più bravo del suo amico a giocare a calcio. Può bastare questo per commettere un omicidio così atroce ed efferato? Evidentemente sì. Chissà, magari la rivalità calcistica è solo la punta dell’iceberg, magari Anicai non ha accettato qualche ricatto di quelle losche organizzazioni che si celano dietro il mondo del pallone per decidere chi e come far emergere, grazie a somme versate in nero o a piccoli favori di aiuto alla malavita. Qualunque sia stato il motivo, nulla è sufficiente a spiegare, motivare e giustificare la morte di un ragazzino che in testa, in fondo, aveva solo il pallone.

di Marco Milan

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