Amarcord: il Valencia di Cuper, la squadra che per due volte fece tremare l’Europa
Ci sono squadre che entrano nella leggenda del calcio grazie alle loro vittorie, ai cicli vincenti aperti, a coppe e trofei sollevati in un’epoca da incorniciare e tramandare ai discendenti. E poi ci sono squadre che entrano sì a far parte del mito, ma lo fanno a prescindere dal risultato, anzi, forse proprio le sconfitte rimediate diventano l’elemento che maggiormente le fa amare. Il Valencia di Hector Cuper è la sintesi di un’era splendida, probabilmente irripetibile e drammaticamente sfortunata.
C’è poco da fare, quando giochi in Spagna e vivi all’ombra dell’egemonia di Barcellona e Real Madrid non puoi che accontentarti delle briciole. Il Valencia è da sempre una delle grandi di Spagna, ma un gradino sotto le due battistrada, perchè la Liga la monopolizzano loro e perchè anche in Europa di spazio ce n’è poco. Ma quando nell’estate del 1999 a Valencia arriva Hector Cuper, allenatore argentino dotato di grande carisma ed attenzione tattica, qualcosa sembra cambiare nel club castigliano, destinato a vivere il momento di maggior splendore della sua storia, unanimemente riconosciuto dall’Europa intera. Cuper è reduce da una imperiosa cavalcata in Coppe delle Coppe col Maiorca, condotto sino alla finale di Birmingham e sconfitto dalla super Lazio di Eriksson; una delusione enorme per la società maiorchina, non certo la più blasonata di Spagna e costretta a rientrare nei ranghi in pochi anni. Il tecnico argentino ha capito che spodestare Barcellona e Real Madrid dal trono della Liga è impresa titanica, per cui getta più di un occhio alla Coppa dei Campioni, competizione a cui il Valencia si è qualificato grazie al quarto posto dell’anno precedente.
La stagione europea del Valencia scatta ad agosto col turno preliminare nel quale i castigliani si impongono facilmente eliminando gli israeliani dell’Hapoel Haifa con un doppio 2-0 che spalanca loro le porte della fase a gironi. La squadra di Cuper gioca all’attacco e ruba l’occhio agli spettatori più attenti: la difesa è ben improntata sui terzini che spingono come dannati, due ex conoscenze del calcio italiano, da una parte il francese Angloma (ex Torino ed Inter), dall’altra il toscano Amedeo Carboni, emigrato in Spagna dopo le esperienze con Sampdoria e Roma. A centrocampo c’è il tuttofare Farinos, l’elegante Gerard ma soprattutto c’è Gaizka Mendieta, il vero faro della squadra, tecnica da vendere, visione di gioco, senso della posizione, velocità ridotta ma intelligenza fuori dal comune, oltre che rigorista ufficiale della squadra. In attacco, poi, la freccia Claudio Lopez, il guizzante rumeno Ilie ed il più tecnico Angulo. Inserito nel gruppo F, il Valencia vince a sorpresa il girone davanti al Bayern Monaco, al PSV Eindhoven e ai Rangers, conquistando 12 punti (3 vittorie e 3 pareggi) e destando sorpresa per un gioco corale e votato all’attacco.
La Coppa dei Campioni dell’epoca prevede un secondo turno a gironi che condurrà poi direttamente ai quarti di finale: il Valencia è nel gruppo B con i campioni d’Europa in carica del Manchester United, la Fiorentina di Trapattoni ed il Bordeaux. E’ qui che l’Europa inizia a scoprire quella che verrà poi definita la realtà più bella d’Europa, perchè gli spagnoli giocano talmente bene da infischiarsene del tipo di avversario che hanno di fronte; l’esordio è travolgente, il Bordeaux cade 3-0 allo stadio Mestalla, poi il Valencia perde due gare di fila contro Manchester e Fiorentina (entrambe in trasferta, 3-0 e 1-0), quindi doma in casa i toscani, battuti 2-0 e messi sotto dal punto di vista tecnico ed atletico. Da adesso in poi la squadra di Cuper diventa un rullo compressore: vince 4-1 a Bordeaux, pareggia 0-0 a Manchester e si qualifica come seconda del raggruppamento con 10 punti, due in più della Fiorentina. E’ bello il Valencia, bello da vedere ed anche redditizio nei risultati, ma in pochi possono ancora pronosticare ciò che sta per materializzarsi; in pochi, probabilmente, anche fra i tifosi stessi della compagine castigliana.
L’urna mette di fronte alla compagine spagnola la Lazio che è una delle candidate alla vittoria finale e che sembra squadra completa in tutti i reparti, oltre ad essere per Cuper proprio la formazione che quasi un anno prima aveva infranto il sogno del suo Maiorca. Il pronostico pende tutto dalla parte della Lazio che la sera del 5 aprile 2000 scende in campo allo stadio Mestalla convinta del fatto suo e che si ritrova in pochi istanti in un incubo; il Valencia è letteralmente indemoniato e la Lazio non ci capisce un’acca: al 1′ segna Angulo, al 4′ raddoppia Gerard, 2-0 dopo nemmeno 5 minuti, due colpi da ko per la squadra di Eriksson che risulta completamente annichilita da un Valencia stellare. Poco prima della mezz’ora segna Simone Inzaghi che festeggia con un gol il suo compleanno, ma il Valencia non si deprime affatto, anzi, sembra ancora più cattivo e prima dell’intervallo segna nuovamente con Gerard che si ripeterà anche nella ripresa siglando tripletta e rete del 4-1. La Lazio non sa che fare, quelli del Valencia sbucano da ogni angolo, il risultato è già pesantissimo e Salas prova a renderlo più leggero realizzando a ridosso del 90′ la rete del 4-2, immediatamente spazzata via dall’azione rapidissima che regala a Claudio Lopez la gioia personale e il gol del definitivo 5-2. Un Valencia che ha disputato la partita dell’anno, almeno così pensano tutti, strabiliati da quel gioco veloce e da quella altissima percentuale di realizzazione degli uomini di Cuper, ora favoritissimi per il passaggio del turno.
La Lazio esce dal campo quasi sconvolta, di certo consapevole che al ritorno dovrà compiere un’impresa, ma non certo demoralizzata. La squadra romana è composta da calciatori di classe ma anche di estrema personalità, da Mancini a Mihajlovic, da Veron a Nedved, fino a Diego Pablo Simeone che si incarica di parlare per tutti a fine partita: “Chi crede nella rimonta si presenti all’Olimpico, chi non ci crede se ne stia a casa”. Lazio-Valencia, insomma, non si preannuncia come gara semplice per gli spagnoli, dei quali ancora in molti non si fidano pienamente; il 18 aprile uno stadio Olimpico di Roma tirato a lucido spinge la Lazio verso le semifinali, ma ben presto tutti si accorgono che quel Valencia non è soltanto gioco d’attacco, ma che Cuper ha organizzato anche un’ottima fase difensiva che infatti imbriglia i biancocelesti e permette al tempo di scorrere via rapidamente. All’inizio della ripresa un bolide dalla distanza di Veron sblocca il punteggio, ma l’impressione è che il Valencia non rischi più di tanto, la Lazio dovrebbe segnare altre due reti e la difesa spagnola pare reggere l’urto con relativa semplicità. Il risultato non cambierà e il Valencia si prenderà un’inaspettata ma meritatissima qualificazione alla semifinale dove troverà i connazionali del Barcellona e dove, dicono quasi tutti, interromperà la sua cavalcata.
Sottovalutare quel Valencia, però, sarebbe da sciocchi, lo sa il Barcellona. ne ha fatto le spese la Lazio. Forse neanche è vero che la squadra di Cuper sia stata sottovalutata, di certo l’impeto e la condizione atletica mostrati in campo appaiono impossibili da sostenere per chiunque, compreso il Barça che al Mestalla scende in campo da favorito e che dopo 10 minuti si ritrova sotto di un gol grazie alla prodezza di Angulo. Il pari dei catalani a causa di un’autorete del difensore Pellegrino non smorza l’entusiasmo del Valencia che, come contro la Lazio, prima dell’intervallo si riporta in vantaggio segnando ancora con Angulo e poi con Mendieta che trasforma un calcio di rigore con una freddezza glaciale. La ripresa è un monologo del Valencia, il Barcellona è alle corde, ben presto capisce che portarsi a casa l’1-3 potrebbe essere quasi un risultato da accettare con gioia per quanto l’avversario sta producendo. Ed infatti, come volevasi dimostrare, il Valencia trova anche la rete del 4-1 con Claudio Lopez proprio al 90′: ora sì che l’Europa si è accorta del Valencia, ora sì che la finale di Parigi non è più un miraggio per la formazione di Cuper che nel ritorno al Camp Nou dimostra maturità e sicurezza, va in vantaggio e poi subisce la sterile rimonta di un Barcellona mai in partita e costretto all’eliminazione. Il Valencia è in finale di Coppa dei Campioni, un traguardo inimmaginabile alla vigilia ma naturale frutto di un gioco e di un’idea assolutamente perfetti.
Ad attendere il Valencia allo stadio Saint Denis c’è un’altra spagnola, il Real Madrid, giunto all’ultimo atto della competizione dopo aver fatto fuori in semifinale il Bayern Monaco. Fra Valencia e Real Madrid c’è una differente storia europea, il blasone dei madridisti , la loro maggior abitudine a giocare finali; per il Valencia è tutto nuovo, anche se i castigliani hanno dalla loro la freschezza, l’esuberanza e quel gioco mostrato finora che può forse fare la differenza anche in una partita secca. E’ la sera del 24 maggio 2000 quando Real Madrid e Valencia scendono in campo per la finale di Coppa Campioni, la squadra allenata da Del Bosque in completo nero, quella di Cuper in arancione; ora l’Europa si attende che il Valencia raccolga quanto seminato e che la finale sia semplicemente la continuazione della favola andata in scena sino ad allora. Ma il calcio a volte è strano e non ha la continuità della storia: il Valencia sembra un parente lontanissimo della squadra ammirata contro Lazio e Barcellona, i suoi migliori interpreti appaiono in difficoltà, timorosi, incapaci di offendere come fatto in precedenza. La squadra di Cuper è timida, il Real Madrid non è che faccia molto di più, ma da formazione esperta qual’è sa che può aspettare il momento giusto per colpire.
Segnare alla fine del primo tempo, si sa, offre un vantaggio enorme perchè scombussola i piani dell’avversario, già pronto ad organizzarsi nell’intervallo. Il Real Madrid è un cobra, nascosto fino al 39′ e che mette fuori la testa di Fernando Morientes al minuto 40 portando in vantaggio la squadra madrilena. Il Valencia, già in evidente difficoltà, crolla del tutto e nel secondo tempo subisce anche il 2-0 di McManaman ed il 3-0 finale di Raul che finalizza al meglio un contropiede del Real Madrid, approfittando del sonno totale della difesa valenciana. E’ una disfatta che neanche Cuper si sa spiegare, mentre in tanti pensano che il Valencia a Parigi abbia pagato la troppa tensione di giocare la più importante partita della storia del club e della carriera della maggior parte dei suoi calciatori; il premio come miglior calciatore della manifestazione, rilasciato a Gaizka Mendieta, sembra chiudere una parentesi bellissima ma sfortunata e forse un po’ casuale per il Valencia di Hector Cuper, perchè, in fondo, quell’occasione è stata più unica che rara. Non sarà così e forse per il Valencia sarà anche peggio.
Nell’estate del 2000 da Valencia partono Claudio Lopez e Farinos, entrambi finiti in Italia, rispettivamente a Lazio e Inter. A rinforzare l’organico di Cuper arrivano l’argentino Aimar e l’esperto francese Didier Deschamps, capitano della nazionale campione del mondo nel 1998. In attacco, ecco l’ariete norvegese John Carew, a testimonianza che il nuovo Valencia sarà forse meno rapido e spettacolare dell’anno precedente, ma più solido e concreto. Nessuno crede al bis europeo, ma la compagine spagnola punta comunque a disputare una buona Coppa dei Campioni che anche stavolta partirà dal turno preliminare, vinto contro gli austriaci del Tirol Innsbruck. Inserito nel gruppo C della fase a gironi (comprendente anche Lione, Olympiakos ed Heerenveen) il Valencia si qualifica agevolmente vincendolo con 13 punti e ritrovando poi nella seconda fase a gruppi il Manchester United già affrontato la stagione prima, lo Sturm Graz ed il Panathinaikos. Anche stavolta la squadra di Cuper vince il raggruppamento conquistando 12 punti e togliendosi pure lo sfizio di giungere davanti al Manchester per differenza reti, grazie soprattutto al roboante 5-0 inflitto in trasferta allo Sturm Graz.
Il Valencia è così un’altra volta ai quarti di finale e, siccome l’appetito vien mangiando, perchè non ricominciare a credere al sogno impossibile? Calma, dicono in Spagna, questa squadra è forte ma non gioca come lo scorso anno. Vero, ma probabilmente è più solida, più esperta e più consapevole dei propri mezzi, i suoi leader (il portiere Canizares, i difensori Pellegrino e Carboni, i centrocampisti Albelda e Mendieta, l’attaccante Angulo) hanno la rabbia e la motivazione giusta per cercare la rivincita e riprendersi quanto perso a Parigi nel 2000. Ma l’avversario dei quarti di finale è fra i più complicati possibili, ovvero l’Arsenal che nella gara di andata si impone per 2-1; al Mestalla, però, il Valencia si dimostra spietato, sfrutta l’unico errore degli inglesi in tutta la partita per pareggiare le reti totali e qualificarsi alla semifinale grazie alla regola dei gol in trasferta. E’ ancora semifinale, è ancora scontro Spagna-Inghilterra perchè fra il Valencia e la finale di Milano c’è ora il Leeds United, altra rivelazione della coppa.
Accorte ed organizzate, Leeds e Valencia si studiano nella gara di andata ad Elland Road, chiudendo sullo 0-0 e rimandando tutto alla sfida di ritorno in Spagna. Al Mestalla si capisce subito che i padroni di casa hanno una marcia in più: la rete di Juan Sanchez sblocca l’equilibrio nel primo tempo, poi nella ripresa gli iberici staccano il lasciapassare per la finale grazie al raddoppio dello stesso Juan Sanchez e al sigillo di Mendieta, ancora una volta di gran lunga il miglior giocatore della partita. Lo stadio di Valencia trema, la squadra di Cuper è nuovamente in finale, un risultato straordinario per un club come quello castigliano, la possibilità di vendicare quanto perso un anno prima; la seconda finale di fila è anche segno di continuità di una squadra che evidentemente non è finita lì per caso ma ha lavorato bene, grazie ad una società intelligente e ad un allenatore preparato e che ora per raggiungere la sua consacrazione dovrà solo portarsi a casa quella coppa e togliersi dal groppone l’etichetta di perdente che rischia di rimanergli attaccata in eterno. Fra il Valencia e la Coppa dei Campioni c’è l’ultimo ostacolo che si chiama Bayern Monaco, altra formazione che con quel trofeo ha un conto in sospeso avendo perso nel 1999 una finale contro il Manchester United che al 90′ era vinta e al 92′ è stata incredibilmente persa dai tedeschi, beffati due volte dallo squadrone di Alex Ferguson.
“La finale della sfortuna”, titola qualcuno alla vigilia della sfida di San Siro. Insomma, almeno uno fra Bayern e Valencia pulirà l’onta di una finale persa e della delusione accumulata. E’ il 23 maggio 2001 quando a Milano inizia Bayern Monaco-Valencia, per molti una gara destinata a non dire nulla di particolare sotto il punto di vista tecnico, ma che si trasforma ben presto in un coacervo di tensione da brividi. Dopo appena due minuti, l’arbitro olandese Jol concede al Valencia un calcio di rigore dopo una concitata azione nell’area del Bayern Monaco: sul dischetto si presenta Mendieta che con la consueta freddezza batte Kahn e porta in vantaggio gli spagnoli. Passano però una manciata di minuti ed il rigore lo ottiene anche il Bayern per un fallo di Angloma su Effenberg e contestatissimo dal Valencia; Scholl calcia malissimo, prende più terreno che palla e permette a Canizares di parare col piede e mandare la sfera in calcio d’angolo. Stavolta, forse, quella coppa non è stregata per il Valencia, mentre sono i bavaresi a vedere ancora più streghe e più fantasmi. Ancora non sanno a Valencia, quanto di sconvolgente per loro stia per consumarsi a San Siro in quella calda serata di primavera inoltrata.
La partita, avevano ragione i critici, non offre grandi spunti di gioco, anzi, è tirata oltre modo, si vedono molti più calci che calcio, il proverbiale pragmatismo del Bayern Monaco si scontra con la solidità di un Valencia profondamente trasformato dai lazzi dell’anno precedente e la sensazione è che far gol alla formazione di Cuper sia alquanto complicato. Ci vuole un altro rigore a riequilibrare la sfida, del resto i tiri dal dischetto saranno il filo conduttore della finale; è il 50′, infatti, quando viene decretato il terzo penalty della serata, il secondo a favore dei tedeschi, fischiato per un mani in area di Carboni. Stavolta a tirare va Effenberg che non sbaglia, 1-1 e tutto di nuovo da rifare per il Valencia; nessuno però vuole esporsi, ormai è chiaro che spezzare l’andamento di una partita così tesa può rappresentare la fine e così nessuna delle due squadre si prende il rischio di provarci. Decideranno i rigori, non lo dicono ma probabilmente lo pensano, per buona pace delle coronarie dei tifosi, inquadrati dalle telecamere sugli spalti e coi volti ormai sempre più pallidi e sconvolti dalla tensione, con la speranza che quella sera possa trasformarsi in un trionfo, ma con la paura che ci si possa invece risvegliare in un tremendo incubo.
La gara finisce davvero ai rigori, dopo i tre della partita, insomma, saranno proprio i tiri dagli undici metri a decretare chi sarà il nuovo campione d’Europa. Cuper fuma nervosamente, dall’altra parte Hitzfeld (che ha già vinto la Coppa Campioni nel 1997 alla guida del Borussia Dortmund) è una maschera di ghiaccio, come da perfetto protocollo teutonico. Va per primo sul dischetto il Bayern con l’ex romanista Paulo Sergio che calcia alle stelle facendo esplodere la curva spagnola. Per il Valencia si presenta al tiro Mendieta che è come sempre uno specialista di glacialità, spiazza Kahn e porta in vantaggio i suoi. Seconda serie: Salihamidzic batte Canizares, Carew fa altrettanto lasciando il Valencia avanti; poi Zickler (entrato nei supplementari) supera con sicurezza il portiere castigliano, mentre lo sloveno Zahovic calcia malissimo, Kahn respinge e dopo tre rigori per parte il risultato è sul 2-2. Quarta serie: il difensore Patrik Andersson si fa parare la conclusione, ma Amedeo Carboni non sfrutta il vantaggio, calcia forte, centrale, Kahn ci mette la mano e devia la palla sulla traversa, sperando poi che il rimbalzo non oltrepassi la riga di porta; così è ed il portiere tedesco abbranca la sfera, la abbraccia, la bacia, urla di gioia, carica i suoi con la grinta e il temperamento che lo caratterizza, mentre Carboni è disperato. Resterà con ogni probabilità questa l’immagine emblematica della finale di Milano.
L’ultima serie di rigori va in archivio con le segnature di Effenberg e Baraja che portano la sfida ad oltranza. Inutile inquadrare i volti degli spettatori, le televisioni immortalano un sostenitore valenciano la cui faccia è coperta da un vessillo con un’immagine sacra che gli nasconde l’espressione; non guarda nemmeno i calci di rigore, si affida al cielo per non soffrire ancora. Primo rigore della fase ad oltranza, per il Bayern segna con violenza Lizarazu, per il Valencia fa altrettanto Kily Gonzalez; si va al settimo rigore per parte: Linke spiazza Canizares, mentre dall’altra parte va a calciare il difensore argentino Mauricio Pellegrino. Lo stopper prende una rincorsa semi centrale, piede sinistro: il tiro non è molto deciso, Kahn indovina l’angolo alla sua destra e respinge di pugno. E’ finita, il Bayern Monaco è campione d’Europa, la disperazione del Valencia si legge nei volti paralizzati dei tifosi, nella faccia scura di Cuper (alla terza finale europea persa di fila) e dai calciatori inchiodati a terra, chi in lacrime, chi ancora incredulo per un altro epilogo sfavorevole. Milano come Parigi, probabilmente anche peggio, perchè se contro il Real Madrid la sconfitta era stata netta, stavolta la coppa era lì ad un passo ed è sfuggita di nuovo.
Il Valencia di Cuper finisce a Milano dove peraltro si trasferiranno, all’Inter, sia Cuper (che vivrà cocenti delusioni anche lì) che Kily Gonzalez, mentre Mendieta andrà alla Lazio, tutti finiti nell’anonimato più completo, segno che forse quel contesto e quella squadra hanno rappresentato una splendida ma irripetibile parentesi, non replicabile e non esportabile altrove. Due finali perse, due notti di lacrime e la magra consolazione di essere diventati per tutti i tifosi neutrali la seconda squadra da tifare in quelle indimenticabili notti europee di inizio anni duemila. E’ stato ingiusto ma bello anche così.
di Marco Milan