Amarcord: Enrico Guaita, il corsaro in fuga

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Molti tifosi se la prendono con quei calciatori che da un giorno all’altro cambiano squadra, attirati da un progetto tecnico migliore, o forse solamente da uno stipendio più alto. “E’ scappato”, dicono i sostenitori più accaniti, considerando il cuore e mai la professionalità degli atleti. Ad Enrico Guaita, invece, detto il Corsaro Nero, la fuga fu quasi indotta, in un’epoca complicata, dominata da un timore che neanche il calcio riusciva a lenire.

E’ un calcio d’altri tempi quello degli anni trenta, senza televisioni, senza quel clamore che accompagna invece lo sport moderno. E’ il calcio che da poco si sta affacciando e proponendo alla ribalta in Italia dove è ancora il ciclismo la disciplina più seguita dalla gente e più commentata nei bar e nei dopolavoro. Enrique Guaita, detto Enrico, fa parte di quel calcio, è nato in Argentina a Nogoyà il 15 luglio 1910 da una famiglia povera nella quale il papà ha tentato con poca fortuna l’avventura da calciatore, senza però andare oltre il campionato riserve con la maglia del Racing Avellaneda. Enrico è pero di tutt’altra pasta: ha talento, tanto talento, una classe purissima nei piedi ed una testa adatta al professionismo, anche se all’epoca non è il sogno di tutti i ragazzini fare il calciatore, motivo per cui risulta forse più semplice affermarsi per chi ha doti naturali come lui.

Scovato nei sobborghi di Buenos Aires e notato come ottima promessa, Guaita finisce a La Plata nelle giovanili dell’Estudiantes, una delle formazioni più forti dell’Argentina. A nemmeno diciott’anni sigla una tripletta nel 4-4 della sua squadra contro l’Independiente e di lui si accorge tutto il paese, perchè quell’ala veloce, tecnica ed efficace non sfugge alla vista e ai taccuini degli osservatori; Guaita finisce anche in nazionale, ma soprattutto diventa l’oggetto del desiderio di numerosi club sudamericani. L’Estudiantes, però, non molla il suo gioiello, fino al 1933 quando una curiosa combinazione lo porta in Italia: il presidente della Roma Renato Sacerdoti, infatti, incarica un ex calciatore giallorosso italo argentino, Nicola Lombardo, di andare a scovare qualche talento da poter far esplodere in serie A, consapevole che da Lombardo ci si potesse aspettare di tutto, dalla possibilità che rintracciasse un fuoriclasse a quella di tornare a Roma con un barista spacciato per centravanti. Inoltre, al suo arrivo in Argentina, Lombardo viene riconosciuto e scoperto per “cacciatore di calciatori“, nonchè minacciato qualora portasse via al paese qualche futuro campione.

Ma l’ex calciatore non è tipo da farsi intimidire, del resto Sacerdoti gli ha commissionato un compito delicato perchè vuole rendere la sua Roma una delle migliori compagini del campionato e portare nella capitale quello scudetto che ha gia sfiorato la Lazio e che i giallorossi potrebbero conquistare a pochi anni dalla loro fondazione. Lombardo va a visionare, fra le altre, l’Estudiantes e resta folgorato dal duo Guaita-Scopelli, due attacccanti veloci e in totale sintonia fra loro; non c’è altro da vedere per lui, sono questi i profili giusti per far grande la Roma ed è con loro che tornerà in Italia. Dopo un complicato dialogo con i dirigenti argentini, Lombardo riesce a strappare all’Estudiantes i due talenti e a ripartire per Roma con loro e col mediano Stagnaro, acquistato dal Racing Avellaneda. La Roma ha i suoi tre nuovi acquisti ed il presidente Sacerdoti si frega le mani contento: “Ora possiamo puntare al titolo”, dice ai suoi più stretti collaboratori.

E’ difficile inquadrare oggi la serie A degli anni trenta: il campionato, composto da 16 squadre, non ha nulla a che vedere con gli sfarzi odierni, i club sembrano andare avanti più per diletto e passione che per obbligo; certo, Genoa, Juventus, Milan, Inter, Pro Vercelli, Torino e Lazio sono società che fanno sul serio e la Roma vuole aggiungersi al treno dei pretendenti al titolo che è l’unico obiettivo possibile, vista l’assenza di coppe europee e nazionali che verranno introdotte solo qualche anno più tardi. Guaita, Scopelli e Stagnaro hanno tutti e tre chiare origini italiane e per loro vale il detto secondo cui gli argentini altro non sono che italiani di lingua spagnola. Il loro arrivo in Italia è del 1 maggio 1933 al porto di Genova e la sera stessa alla stazione Termini di Roma, accolti da diversi tifosi romanisti in festa. L’esordio dei tre argentini è in un’amichevole contro il Bayern Monaco nel celebre Campo Testaccio: Guaita delude, apparendo impacciato nei movimenti e per nulla concreto, mentre a destare la maggior impressione è Stagnaro che, viceversa, si rivelerà un flop.

Ma Enrico Guaita ci mette assai poco a conquistare Roma: il 24 settembre 1933 la Roma vince a Firenze per 3-1 e l’argentino, oltre a realizzare una doppietta, manda in visibilio il pubblico con giocate da fuoriclasse. Altro che bidone, Guaita diventa immediatamente il Corsaro Nero per i tifosi giallorossi, estasiati dai colpi dell’attaccante, eccitati dalla possibilità di competere con le rivali per la vittoria dello scudetto. La Roma ingrana in campionato e Guaita si afferma come uno dei migliori attaccanti della serie A, tanto che il commissario tecnico della Nazionale Vittorio Pozzo, in virtù delle leggi vigenti in Italia all’epoca, lo arruola fra gli azzurri nonostante le 14 presenze già collezionate con la selezione argentina. Guaita diventa uno dei famosi oriundi della nazionale italiana, una scelta vincente che porterà l’Italia al successo ai mondiali del 1934, grazie al gol di Guaita in semifinale contro l’Austria e al suo assist per Schiavio nella rete decisiva in finale con la Cecoslovacchia.

L’argentino è ormai l’idolo indiscusso del popolo romanista, l’architrave di una squadra che progressivamente vuole diventare la protagonista numero uno del calcio italiano. Dopo un’epica sfida in Inghilterra con la Nazionale, Guaita rimedia così tante botte alla caviglia da dover dare forfait nell’importantissimo Ambrosiana Inter-Roma del novembre 1934; ma la voglia e il carisma dell’attaccante sono più forti di tutto: con due infiltrazioni e imbottito di analgesici, Guaita monta sul treno notturno che lo conduce ugualmente a Milano e lo catapulta direttamente in campo il giorno dopo. Gli stessi calciatori dell’Ambrosiana se lo ritrovano davanti a sorpresa, qualcuno chiede anche ai colleghi giallorossi: “Ma non era malato?”. Altro che malato, Guaita sembra rifiorito e un suo bolide dalla distanza regala alla Roma l’ennesima vittoria di un campionato che la porterà al quarto posto, eleggendo proprio Enrico Guaita come capocannoniere del torneo con 28 reti in 29 partite (record imbattuto nei tornei a 16 squadre), alla faccia dei dubbi iniziali e dell’originario ruolo di ala, perchè l’allenatore romanista Barbesino lo ha da tempo trasformato in centravanti, un antenato del recente Dries Mertens napoletano. La Roma è ormai matura e in molti la candidano come grande favorita del campionato che sta per incominciare, quando improvvisamente la favola arriva ai titoli di coda.

Guaita, assieme agli altri due oriundi Stagnaro e Scopelli, sostiene le rituali visite per il servizio di leva. Nulla di preoccupante, è e sarà per sempre la prassi per ogni calciatore, fino alla scomparsa dell’obbligo di leva nei primi anni duemila. I tre vengono arruolati nel corpo dei Bersaglieri e da lì iniziano ad aver timori, chissà poi quanto fondati: il rischio è infatti il possibile coinvolgimento delle nuove leve militari nella famosa “questione etiopica”, con l’Italia pronta ad inviare in Africa un proprio contingente. Sui giornali, del resto, non si parla d’altro e Guaita, Stagnaro e Scopelli sono terrorizzati dall’idea di dover riporre gli scarpini da calcio in borsa e dover indossare abiti di guerra. I tre si parlano, confabulano fra di loro, alla fine parlano con il direttore sportivo della Roma, Vincenzo Biancone, il quale li rassicura: “Ma quale partenza per l’Africa – gli risponde quasi divertito il dirigente giallorosso – voi, come tutti gli altri calciatori, non finirete sotto le armi”. Ma i tre giocatori non sono convinti affatto e rilanciano: “Abbiamo paura, vogliamo consultarci col consolato argentino a Roma per capire se esistano maggiori garanzie su come evitare un’eventuale chiamata”.

La situazione in casa Roma sta precipitando e ci sono problemi anche più gravi: il vecchio presidente Sacerdoti, ebreo, ha lasciato la carica e il nuovo proprietario romanista è Vittorio Scialoja che il giorno della discussione fra i tre argentini e Biancone accetta la richiesta di Guaita che vuole 10.000 lire di stipendio, un record per l’Italia. Lo stesso Guaita, Scopelli e Stagnaro si fanno accompagnare da Biancone e da un altro consigliere della Roma davanti al consolato argentino dove però non entreranno mai. L’appuntamento per la seduta di allenamento pomeridiana, infatti, viene disertato dai tre, senza che la cosa desti particolare preoccupazione nè nell’allenatore e nè nella società, tutti convinti che i calciatori siano stati trattenuti per beghe burocratiche e Whatsapp non esiste ancora per una veloce comunicazione circa il ritardo. L’ansia sale verso sera quando i calciatori non si vedono ancora e quando, soprattutto, un paio di tifosi raggiungono la sede della Roma per comunicare che hanno visto Guaita salire con bagagli e famiglia sulla propria macchina e partire a tutta velocità. Ma c’è di più: il giorno dopo un altro testimone racconta che Guaita ha raggiunto Scopelli e Stagnaro e che con le rispettive mogli sono partiti, scappati, diranno poi.

I tre calciatori romanisti, verrà accertato nei giorni successivi, lasciano l’Italia raggiungendo la Liguria in macchina e salpando su una nave diretta in Francia e tornando poi in Sudamerica con una bastimento merci. Non hanno creduto alle rassicurazioni della Roma, hanno preferito la fuga al rischio (poi infondato) di dover partire per l’Africa nel contingente italiano diretto in Etiopia ed Eritrea, scegliendo di risultare come disertori; l’Italia li addita immediatamente come traditori della patria, i giornali del regime Fascista parlano di pecore travestite da leoni, di incoscienti, di esempi di viltà nei quali i veri italiani non si riconoscono. Qualcuno, in seguito, parlerà di maligni che, non vedendo di buon occhio la Roma, avrebbero consigliato i tre argentini male, spingendoli ad abbandonare il paese, sottraendo così ai giallorossi tre pedine importanti di una squadra forse destinata al successo. Il regime, inoltre, bandirà un possibile ritorno dei disertori accusandoli di traffico illecito di valuta nazionale, tirando nella vicenda anche l’ex presidente Sacerdoti che, oltretutto di religione ebraica, finirà per essere costretto all’espatrio.

Enrico Guaita termina in pratica qui una carriera calcistica dalle prospettive luminose: dopo la fuga dall’Italia, infatti, non riuscirà ad affermarsi in Argentina, probabilmente anche perchè mal sopportato da una parte del paese che non aveva apprezzato il ritorno da quasi clandestino e la paura di essere arruolato in Italia, oltre che, forse, detestando quel talento che dall’Argentina era andato via per cercare fortuna altrove, giocando pure con la nazionale di un altro paese, tradendo così la natia patria. Storia di un traditore, si potrebbe definire così la vita di Guaita, in realtà solo troppo prudente in un’epoca in cui, evidentemente, la cautela non era mai troppa. Calcisticamente, l’attaccante sudamericano verrà ingaggiato dal Racing Avellaneda prima e dall’Estudiantes poi, segnando ancora qualche rete e chiudendo la carriera alla soglia dei trent’anni, nell’indifferenza generale di un mondo che avrebbe potuto avere ai suoi piedi. Guaita lascerà il calcio, deluso e forse pentito di una scelta che di fatto gli ha rovinato carriera ed esistenza.

Viene assunto come direttore del carcere di Bahia Bianca ma dopo poco perde il posto a causa di motivi mai realmente accertati ma riconducibili a questioni politiche legate ai moti argentini, ritrovandosi in ristrettezze economiche senza riuscir più a trovare un lavoro stabile anche a causa di condizioni di salute che incominciano a indebolirlo. Povero e minato nel fisico, Enrico Guaita passerà gli ultimi anni della sua vita in casa di amici, ospitato per carità e benevolenza, dove morirà il 18 maggio 1959 a neanche cinquant’anni, ormai debole e malato, dimenticato da tutti. Alejandro Scopelli è invece diventato allenatore ed è morto nel 1987 a 79 anni, mentre di Andrès Stagnaro, dopo il ritorno in Argentina, si sono perse per sempre le tracce. Roma, ancora oggi, rimpiange quel trio di argentini che avrebbe potuto anticipare quello scudetto vinto poi nel 1942; in particolare, la fuga di Enrico Guaita è ritenuta mitologica dall’ambiente giallorosso, per sempre innamorato del suo Corsaro Nero.

di Marco Milan


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