Marcinelle, la tragedia dell’emigrazione italiana in miniera

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Marcinelle. Sessanta anni fa l’incendio nella miniera Bois Du Cazier in Belgio in cui persero la vita 272 uomini. Di questi, 136 erano italiani. Il ricordo del tragico evento nel giorno dell’anniversario.

Lo scorso 8 agosto le bandiere delle istituzioni italiane sono rimaste a mezz’asta, per ricordare il dramma di Marcinelle, uno degli eventi più tragici della storia contemporanea.

Sono passati sessanta anni dalla mattina dell’8 agosto 1956, quando 274 minatori di dodici nazionalità diverse, scesero per l’ultima volta nella miniera di carbone Bois Du Cazier di Marcinelle, cittadina belga del comune di Charleroi. Un errore umano fatale e, di quei 274 uomini, ne tornarono in superficie soltanto 38. 262 furono le vittime delle ustioni, del fumo e dei gas tossici causati dall’incendio divampato nei pozzi della miniera. Di queste, 136 erano italiane.

La tragedia dell’emigrazione, così passo alla storia la carneficina di Marcinelle, perché all’interno di quella fatale miniera vi lavoravano uomini provenienti da tutta Europa, giunti in Belgio per cercare fortuna in uno dei pochi paesi rimasti pressoché illesi dalle tragiche conseguenze della seconda guerra mondiale. Nel dopoguerra, infatti, il Belgio era una realtà ricca di carbone, con un comparto industriale resistente, ma povera di manodopera. I paesi in sofferenza accolsero come un segnale di salvezza l’appello del Primo ministro belga ad unirsi per vincere la “battaglia del carbone”: forza lavoro partì dalla Francia, dalla Polonia, dalla Grecia e da tante altre nazioni europee e non solo, che videro nella necessità del Belgio una possibilità di ripresa dalle difficoltà sopraggiunte alla fine del secondo conflitto mondiale.

L’Italia fu il paese più coinvolto da questa migrazione. Il 23 giugno 1946, infatti, il Governo belga strinse il Protocollo italo- belga con il Governo italiano, allora presieduto da Alcide De Gasperi, al fine di assicurare uno scambio tra fornitura di carbone a prezzo preferenziale – una risorsa di cui l’Italia era priva- e minatori pronti a lavorare nelle miniere belghe. Quel patto assicurò al Belgio 50 mila minatori italiani, che si riversarono gradualmente nel paese delle Fiandre entusiasmati dalla promessa di buoni salari, assegni famigliari, ferie pagate. La realtà che li attendeva, però, era ben diversa. In Belgio gli emigrati trovarono condizioni sociali e lavorative durissime: gli italiani si calavano nel buio delle miniere senza alcuna preparazione, in condizioni di insicurezza; la sera, scansati dalla popolazione locale, si ritiravano in quelle baracche che pochi anni prima erano servite come campi di prigionia per i soldati tedeschi. Grazie alle pressioni del Governo italiano, nel corso degli anni migliorarono parzialmente le condizioni dei minatori che, con il tempo, poterono godere dell’affetto delle famiglie autorizzate a raggiungerli in Belgio.
Ciononostante, la sicurezza sul lavoro restò precaria tanto che, quella mattina dell’8 agosto 1956, bastò un ascensore azionato nel momento sbagliato per generare un disastro umano di cui restano, ancora oggi, molti interrogativi irrisolti. Il fuoco e il fumo dilagati nella miniera di Bois Du Cazier occultarono, insieme ai corpi dei tanti dispersi, aspetti della vicenda impossibili da chiarire a causa della morte di alcuni dei lavoratori implicati nell’incidente.

Perché, a provocare il decesso di 262 persone, fu “banalmente” un errore umano nella movimentazione dei carrelli trasportatori e nell’attivazione dell’ascensore sbagliato in tempi sbagliati. Un istante fatale e una scintilla provocò un incendio in uno dei pozzi principali: in pochi minuti il fuoco (ma ancora di più il fumo) travolse l’impianto sotterraneo. I minatori, i “musi neri”, morirono intrappolati nelle fiamme, nei gas tossici o nella lenta agonia in attesa degli inutili soccorsi.

«Sono tutti morti. Queste tre parole campeggiano sulla prima pagina dei giornali di Charleroi usciti di buona mattina in edizione straordinaria, listati a lutto. Sono tutti morti. Le tre parole che la gente ripeteva costernata per le strade, suonavano come tre funebri rintocchi sull’ultimo atto della tragedia di Marcinelle, all’alba del diciassettesimo giorno dal suo principio», così Massimo Caputo, inviato del Corriere della sera raccontava il tragico epilogo il 24 agosto.  Le circostanze che seguirono sono rappresentative dell’ambiguità e della complessità che ancora oggi girano attorno alla vicenda di Marcinelle. Furono necessarie tre inchieste, infatti, per arrivare nel 1961 alla condanna a sei mesi per Adolph Calicis, direttore dell’impianto. Tutti assolti gli altri imputati mentre, per la miniera, venne dichiarata la responsabilità civile e l’obbligo a pagare 25 milioni di lire ai familiari di alcune delle vittime non ancora risarcite.

Oggi, a distanza di 60 anni, Marcinelle rappresenta un monito da non dimenticare, come ha sottolineato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nell’anniversario del tragico evento: «Una tragedia assurta a simbolo delle sofferenze, del coraggio e dell’abnegazione dei nostri concittadini che lottavano – attraverso il duro lavoro – per risollevare se stessi e le loro famiglie dalla devastazione del secondo conflitto mondiale. Spero che il ricordo sia di sprone a migliorare le condizioni di sicurezza sul lavoro».

Un monito che costringe a riflettere sulla peculiarità unica della storia che, pur non essendo mai uguale a sé stessa, presenta aspetti che accadono, trascorrono e si ripetono nella stessa essenza, in un’eterna ciclicità. «Ripensare come eravamo e vivevamo, rafforza la nostra determinazione ad accogliere con spirito di solidarietà chi oggi è costretto a migrare e ha diritto alla protezione internazionale”, queste le parole del presidente del Senato Pietro Grasso, per sottolineare la necessità di ricordarsi del proprio passato per affrontare con spirito critico ed oggettivo il presente».

(di Giulia Cara)

Fonte immagine: difesapopolo.it

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