“Lo chiamavano Jeeg Robot”: la Roma fantascientifica di Mainetti è reale

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Il nuovo film di Mainetti regala a Roma il suo supereroe

Dentro “Lo chiamavano Jeeg Robot” c’è tutta Roma. Con le macchie, le ombre, la verità e la fantasia. È una Roma distopica, ma mica tanto. È una Roma forse del futuro, eppure uguale uguale a quella di oggi.

C’è la Roma delle periferie. Tor Bella Monaca che parla per tutte le altre. Quella Roma che al cinema non si vede più, perché diventa sempre più uno sfondo da cartolina per qualche commedia leggera. Oppure te la fanno vedere ma piena zeppa di cliché, così tanti e perpetrati che alla fine la gente di borgata si arrende e inizia a credere davvero di essere così.

Quella Roma che non si vede più da quando Verdone ha rinunciato a interpretare personaggi semplici ma dalla psicologia complessa e caratterizzata e ha deciso, insieme a tutti gli altri, che Roma è fatta solo da psicoterapeuti, avvocati, ingegneri, imprenditori. Che abitano in palazzi signorili con l’ascensore con la gabbia e il portiere proletario reverenziale e impiccione, guidano i suv, c’hanno l’amante, la villa a Sabaudia. Oppure a Roma sono tutti Oscar Feroci, tutti coatti senz’anima, storia, identità. Ignoranti, volgari, menefreghisti e provinciali.

Nel film di Mainetti c’è quella Roma che Caligari ha provato con tutte le sue forze a raccontare, attraverso una scrittura cinematografica attenta, come i suoi occhi sulla vita della città. La lealtà, il rispetto e la delicatezza che Claudio Caligari ha sempre avuto nei confronti di una metropoli dove non era neanche nato, ma che non si ritrovano in nessun regista capitolino contemporaneo.

Dentro “Lo chiamavano Jeeg Robot”, c’è Roma, che è come sarebbe stata Gotham City se avesse avuto il Colosseo. Non è Roma che vuole fare New York. È più come se Caligari avesse fatto un film di fantascienza. È Roma per davvero, anche se Enzo Ceccotti casca nel Tevere e poi ha i superpoteri. È la Roma più vera che si sia mai vista sul grande schermo negli ultimi anni.

E poi si ride, di gusto. Senza battute da cinepanettoni, senza stonare con l’atmosfera plumbea del film, senza smorzare quella tensione che per due ore e trentacinque minuti ti tiene incollato alla poltrona. Luca Marinelli straordinario, una conferma in continuo crescendo che colleziona un successo dietro l’altro. Claudio Santamaria una certezza che seduce per la grazia che riesce a infondere a un Hiroshi Shiba tanto rude quanto improbabile.

Ma la menzione speciale è per Ilenia Pastorelli. Alessia non è Mary Jane o Lois Lane, non è una figurante come spesso accade alle donne presenti nei film dei supereroi. È protagonista fondamentale dell’evoluzione psicologica di Hiroshi/Enzo, è lei in realtà la supereorina. Riesce a far ridere davvero, senza scadere in superati stereotipi, il suo romanesco è irresistibile come le sue gag da moglie d’altri tempi insieme a Santamaria. Enzo e Alessia portano sullo schermo la storia d’amore più tenera, romantica e maledetta degli ultimi anni, riuscendo a toccare tematiche profonde evitando gli intenti pedagogici e salvifici.

Le musiche scelte da Mainetti e Braga e il montaggio di Andrea Maguolo che sanno generare adrenalina e fomento; la fotografia di Michele D’Attanasio che immortala il cuore di una metropoli maltrattata e la sceneggiatura di Guaglianone e Menotti che racconta la sua gente dimenticata: è  una sinfonia perfetta che regala ai romani il loro supereroe, di cui tutti hanno compreso il bisogno proprio quando l’hanno visto apparire.

“Lo chiamavano Jeeg Robot” è una promessa. È la speranza che certe modalità di fare cinema non restino appannaggio esclusivo dei soliti pochi, è l’auspicio che tutta una serie di maestranze nostrane affinate dalle nuove tecnologie tornino di prepotenza a lavorare per il cinema italiano e che questo torni ad invadere le strade della città, ad uscire dagli studi, a incontrare la sua gente e a raccontarla così bene.

Cesare Zavattini una volta disse: “ Il cinema italiano è morto quando chi fa cinema, sceneggiatori e registi hanno smesso di prendere il tram”. Forse è questa l’unica vera magia del film di Mainetti. Sembra che il regista e gli sceneggiatori siano tornati a bordo del devastato trasporto pubblico romano e qui abbiano catturato tutta quell’umanità che poi hanno riversato addosso allo Zingaro, a Enzo, a Sergio, ad Alessia.

Non è un caso che Enzo Ceccotti non possegga neanche un motorino. Nella città si muove a piedi, col tram, con l’autobus. Per tornare a casa prende il 20 Express, che dalla Stazione Anagnina lo riporta nel suo covo pieno zeppo di budini alla vaniglia e film porno, verso quelle borgate in cui Roma sembra finire e dove la città pare aver ritirato la sua onda, abbandonando su una desolata spiaggia di cemento, frammenti spezzati di vite ignorate.

(di Azzurra Petrungaro)

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