L’Isis si batte solo se decidiamo di combatterlo davvero

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curdiSi può provare dolore senza seminare odio, si può soffrire per le vittime di Parigi senza avere paura del diverso, si può essere contro l’Isis senza ritenere di essere al centro di una guerra di religione. Si può, nonostante Libero, Salvini, Rondolino e nonostante la maggior parte degli aggiornamenti di stato sui social network, nonostante quegli utenti che acriticamente ad ogni attentato condividono una frase di Oriana Fallaci, ad ogni carica della polizia una frase di Pasolini e ad ogni manifestazione di Casapound la solita frase di Voltaire.

Si può e a insegnarcelo sono gli stessi francesi che in questi giorni ancora una volta vivono l’incubo del terrorismo. Ce lo insegnano gli abitanti di Lille che, riunitisi in piazza per condividere dolore, paura e sconforto, hanno cacciato con determinazione un gruppetto di sciacalli di estrema destra arrivati in piazza con uno striscione in cui si chiedeva l’espulsione degli islamici dal Paese.

La guerra all’Isis non si vince chiudendo le moschee in Europa, cacciando gli islamici dai nostri Paesi, chiudendo le frontiere, alzando muri che mirano a trasformare l’Europa in una ridicola fortezza e lasciando morire in mezzo al mare i rifugiati che scappano da questi animali dell’Islamic State.

L’Isis si batte innanzitutto combattendolo frontalmente, sul suo territorio. Fino ad ora gli unici che si sono fatti carico di questa responsabilità sono gli eroici combattenti curdi. Un esercito di coraggiosi formato da uomini e donne non professionisti che come ringraziamento ha ricevuto le bombe dei caccia turchi nella totale indifferenza occidentale. Anzi peggio, quando gli aerei di Erdogan hanno bombardato le formazioni curde, i paesi della Nato hanno espresso solidarietà ad Ankara contro il terrorismo “in tutte le sue forme”. Insomma, per non fare un dispetto ad Erdogan i curdi ed i macellai dell’Isis sono stati messi sullo stesso piano.

L’Isis si batte smettendo di armare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, due tra le realtà islamiche più estremiste e più vicine ai terroristi dell’Islamic State. Qualche giorno fa, ad esempio, dall’aeroporto di Cagliari sono partite su un Boeing 747 tonnellate di ordigni destinati alla base militare di Taif della Royal Saudi Armed Forces, armi che verranno usate per combattere l’opposizione yemenita. E proprio la scorsa settimana il nostro Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, era in visita a Riad per inaugurare accanto al re Saudita il cantiere della metropolitana appaltata ad un’azienda italiana.

L’Isis si batte non lasciando soli i tunisini che, subito dopo la primavera araba, sono stati stretti nella morsa degli estremisti, pagando con numerose vite umane l’ostinazione di tanti uomini e donne che vogliono vivere in una repubblica laica e democratica dopo la caduta di Ben Ali.  Si batte smettendo di girare la faccia dall’altra parte quando le vittime sono a Tunisi, a Suruc, a Beirut, a Peshawar. Perché il califfato di Al-Baghdadi va battuto non solo per riportare serenità nelle capitali europee ma soprattutto per consentire a centinaia di migliaia di yazidi di tornare nelle loro case, per liberare milioni di islamici dall’onta dell’estremismo, per liberare quegli uomini e quelle donne che ogni giorno subiscono l’oppressione dell’Isis.

Insomma, l’Isis si batte se lo si vuole combattere davvero. Si batte mettendo da parte gli interessi delle fabbriche di armi, superando le beghe tra Putin e Obama, smettendo di trattare con personaggi come Erdogan, Assad o con il Re Salman d’Arabia, con una politica estera europea comune e condivisa. Ecco, quando la Marsigliese avrà smesso di suonare nelle piazze europee, vorremmo riuscire a capire se i leader mondiali hanno deciso di combattere davvero l’Isis. E intendiamoci, la rappresaglia francese su Raqqa in corso in queste ore resta appunto quello che è: una rappresaglia. Per vincere la guerra serve molto di più.

(di Giulia Cara)

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