Parla a tuo figlio dell’Isis, prima che lo faccia l’Isis

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propoaganda jihadistaÈ il titolo della contropropaganda di Hayat Canada ed ExtremeDialogue.org, due gruppi online che aiutano genitori ed insegnanti a capire di più e meglio cosa spinge i propri figli ad abbandonare tutto per aderire all’Isis. Il fenomeno, così chiacchierato eppure così poco conosciuto e analizzato, fa breccia nel cuore delle famiglie europee, statunitensi e perfino australiane, che poco o per nulla riescono a spiegare qual è il fascino che trasforma i loro figli da studenti in combattenti.

Ci diamo così tante risposte sull’Isis che abbiamo dimenticato come farci le giuste domande. Vogliamo combatterli ma non li conosciamo. Pensiamo di bombardarli, come fossimo nel 1941, mentre il califfatto conquista la rete e si espande attraverso i bit. In pochi si sono realmente soffermati a riflettere sul perché tanti giovani che vivono in Europa, Canada, Australia e Cina, vadano ad arruolarsi per combattere in Siria e in Iraq. È del New York Times un diagramma di flusso che analizza nel dettaglio la provenienza geografica dei volontari stranieri presenti sul terreno attualmente occupato dalle milizie islamiche del Califfo. Si parla di circa 17.000 combattenti. I contingenti più cospicui provengono da Cecenia, Nord Caucaso (circa 9.000) e Turchia (1.000), dove l’Islam è religione dominante, come in Kosovo (400 volontari), ma ce ne sono ben 1.900 con cittadinanza europea (700 dalla sola Francia, 340 dalla Gran Bretagna, una sessantina dall’Irlanda), un centinaio dagli Stati Uniti, e tra i 50 e i 100 persino dall’Australia. Come è stato fatto notare e quindi scadere nel tunnel mediatico del giornalismo di superficie, “i terroristi non arrivano sui barconi” ma sono cittadini degli Stati in cui commettono gli attentati.

La storia di Damian Clairmont, ragazzo canadese andato a combattere con gli jihadisti al servizio di Abu Bakr al-Baghdadi, e morto l’anno scorso, a nemmeno 22 anni, durante una battaglia ad Aleppo è solo un esempio di altre 17mila storie simili. Un ragazzo quasi normale, sofferente di un’adolescenza di bullismo, con alle spalle un tentativo di suicidio e un Islam che ha saputo dargli delle risposte non trovate altrove. Damian è partito un giorno per l’Egitto con il pretesto di studiare l’arabo, così ha detto a sua mamma Christianne, ma non ha mai fatto ritorno a casa. Proprio la madre oggi sostenitrice di Hayat ed ExtremeDialogue, offre la sua esperienza e la testimonianza per combattere “quel fanatismo che cattura giovani adolescenti on-line proponendo un modello di assolutismo religioso che sostituisce l’incertezza e la vaghezza di questo nostro mondo che non sa più ascoltare”. È sempre attraverso la rete che sono state cooptate altre tre ragazze, tre amiche londinesi di 15 e 16 anni che hanno lasciato casa e scuola per diventare «mogli della jihad». Shamima Begum, Kadiza Sultana e un’altra loro amica, britanniche di origine bengalese e di religione musulmana, hanno acquistato un biglietto di sola andata per Istanbul. Ultime notizie sulle tre adolescenti vengono dal tweet di una di loro, poi scomparsa nel nulla sul volo della Turkish Airlines. L’indottrinamento dei social network al servizio del Califfo ha funzionato ancora una volta come dimostra la potenza mediatica dei due video rilasciati dall’Isis sulla brutale uccisione del pilota giordano e dei 21 cristiano-copti Egiziani.

Un gruppo di fanatici certo non alieni né spinti dal bisogno che riesce a sfruttare la nostra debolezza e i nostri media per diventare il nemico numero uno. Quante risposte continuiamo a darci senza invece chiederci cosa abbiamo fatto a noi stessi, ai nostri amici ai nostri ragazzi per infine credere che si possa combattere per la religione, una maschera di interessi da cui certo non possiamo sottrarre le nostre responsabilità. Già nel 2010 il Rand National Defense Research Institute redigeva una ricerca intitolata “An Economic Analysis of the Financial Records of al-Qaeda in Iraq” che analizza i dati contabili di Al-Qaida tra il 2005 e 2010. La ricerca è stata resa nota solo nel 2014 e, in occasione della sua pubblicazione, la Rand ha dichiarato che, mutatis mutandis, i dati sono validi anche per l’Isis, almeno nei caratteri principali. Le  conclusioni di Rand sono che la retribuzione non è il movente principale che spinge ad arruolarsi nelle milizie islamiche e che i terroristi hanno livelli d’istruzione e patrimonio superiori alle attese, il che indebolisce le teorie che spiegano la partecipazione alla militanza con una carenza finanziaria, l’instabilità mentale o  la scarsa educazione. Secondo Rand inoltre il reddito di un combattente è di gran lunga inferiore a quello percepito dalla media delle famiglie nelle regioni interessate, con dall’altro lato una elevatissima probabilità se non ricerca della morte. Non sono dunque emarginazione, follia e povertà a motivare i volontari. Diciamolo ai nostri figli, prima che lo faccia l’Isis.

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